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Il mito del leader di ferro

Antonio Funiciello

La capacità di comando è una componente essenziale della politica, ma non è tutto. Il decisionismo può diventare un limite insuperabile. Macron e May insegnano

Quattro anni fa Archie Brown, politologo, storico e professore a Oxford, pubblicò The Myth of the Strong Leader: Political Leadership in the Modern Age. In questo saggio, che è forse il migliore tra gli studi recenti sulla leadership (e che ovviamente non è stato tradotto in italiano), Brown prova a ridimensionare il mito dell’uomo solo al comando. Se si considera che il libro è del 2014, quando cioè il fiume carsico del populismo non era ancora riemerso con tutta la sua irruenza sulla superficie europea e occidentale, si apprezza ancora di più la tesi centrale del lavoro di Brown.

 

Tesi che è presto riassunta. Prendiamo Harry Truman, di cui Brown parla molto nel suo bel libro. Truman era un leader decisamente poco “strong” e sommamente conciliante. Come spiega Brown, il contadino del Missouri amava lavorare coi suoi ministri. Caratteristico del suo stile presidenziale il fatto che quel capolavoro politico che fu il Piano Marshall prenda il nome del suo ministro degli Esteri, e non il suo! Archie Brown sostiene che il pugno di ferro non è affatto una delle principali qualità di un leader. E che nei leader che durano nel tempo e che fanno la storia prevalgono altre qualità rispetto a un rude e compiaciuto decisionismo che, viceversa, può rappresentare un limite nell’esercizio della leadership.

 

“Sono orgoglioso di essere un politico. Uno statista è un politico morto da dieci o quindici anni”, disse un giorno Harry Truman

Il presidente francese rischia di essere la promessa più mancata della politica europea degli ultimi anni. Sta vivendo un processo di “chirachizzazione”

All’opposto dell’atteggiamento tipico dello “strong leader”, Truman è uno che è entrato nella storia senza avere l’obiettivo di entrare nella storia. Pochi anni dopo essersi ritirato dalla politica e considerato ormai uno dei più importanti statisti della prima parte del secolo, parlando al Reciprocity Club di Washington, Truman disse: “Sono orgoglioso di essere un politico. Un politico è un uomo che conosce l’arte del governo e ci vuole un politico per guidare un governo. Uno statista è un politico morto da 10 o 15 anni”. Archie Brown e Harry Truman mi sono tornati in mente osservando Emmanuel Macron e Theresa May alle prese con i loro diversi problemi domestici.

 

Non c’è dubbio che Macron, già laureato in Filosofia e già banchiere di Rothschild, si sia presentato al popolo francese e al grande pubblico internazionale come un uomo forte. Forte della sua competenza di tecnocrate. Forte del suo europeismo da establishment. Ancor più forte per aver sconfitto al ballottaggio la figlia di un leader fascista, fascistella pure lei, e aver tenuto la Francia nel perimetro dei valori liberaldemocratici. Ancor più forte per essersi proposto come il leader che ha dato il colpo di grazia al vecchio sistema dei partiti francese, fondando un proprio movimento con l’obiettivo di superare la noiosissima diade destra/sinistra.

 

Non c’è parimenti dubbio che Theresa May, già laureata in geografia e ministro dell’Interno nei due gabinetti Cameron, non sia proprio il prototipo di una “strong leader”. Militante e dirigente del Partito Conservatore, prima di entrare ai Comuni nel ’97 ha dovuto provare due volte a conquistare uno scranno parlamentare, nel ’92 e nel ’94, andando incontro però a sonore sconfitte. Accusata più volte di cedimenti razzisti per le scelte di politica migratoria quando era ministro, la signora May ha in realtà sempre assunto posizioni incerte e poco caratterizzanti. Sul referendum Brexit, per esempio, il suo sostegno al Remain è stato più sbiadito delle pitture rupestri del Paleolitico che si trovano in certe grotte.

 

Eppure May ha mostrato finora una notevole capacità di tenuta, mentre Macron, a parte qualche bel discorso, non è riuscito a dettare un chiaro indirizzo di governo alla Francia. E, nonostante la grande opportunità di avere una leader tedesca in uscita, non riesce a imporsi come leader continentale e gioca sui decimali del rapporto deficit/pil come un politico qualsiasi. May gestisce la fase più difficile della storia britannica dai tempi delle Falkland e delle proteste dei minatori. Prova a costruire un accordo onorevole con l’Europa, dopo il pasticcio di Brexit, e pur con passo da sciatrice di fondo, avanza verso un deal che se non scalda i cuori, potrebbe altresì avere un significato storico per il Regno Unito. Macron, campione della discesa libera, da quando è in carica non fa che infilare tutte le porte (gialle) piantate sul suo tracciato.

 

Quando uscì il libro di Brown sul mito del leader forte, la più sorprendente recensione positiva arrivò dalla penna di Bill Gates. A proposito della tesi centrale di Brown, il fondatore di Microsoft scrisse: “I leader che fanno la differenza più grande e migliorano la vita di milioni di persone sono quelli che collaborano, delegano e negoziano, quelli che riconoscono che nessuna persona può o dovrebbe avere tutto le risposte… Le stesse qualità che sembrano così attraenti nei leader forti possano portare, nei casi migliori, a decisioni sbagliate e, nei peggiori, a morte e sofferenza su vasta scala. Queste qualità possono essere ridotte a un dogma che il leader stesso elabora, secondo il quale lui – o lei, ma più spesso è un lui – è l’unico che sa di cosa ha bisogno il suo paese”.

 

Le vicende di May e Macron ci raccontano molto dei tempi che viviamo. La leadership è una componente essenziale della politica. Ma ridurre la politica allo spazio della mera soggettività dei leader è un errore di grammatica, prima ancora che di sintassi. In quanto elemento essenziale della politica, la leadership è soggetta all’interazione continua con numerosi altri elementi. E nei tempi voraci del populismo, in cui la deperibilità dei leader aumenta esponenzialmente, questa interazione è cruciale per scongiurare un rapido deterioramento della leadership stessa. Nei regimi democratici liberali, una componente di relazione fondamentale della leadership è rappresentata dal sistema dei partiti. E dall’abilità dei leader di rapportarsi dialetticamente al proprio partito e al sistema dei partiti tout court, dipende gran parte del loro successo.

 

Torniamo a May e Macron. Il referendum sulla Brexit è stata un’invenzione del partito di Theresa May. La sua storia è antica: un pezzo di Regno Unito ha cominciato a questionare sull’uscita dall’Europa mezz’ora dopo esserci entrati. Ed è una storia trasversale. Il motivo principale per cui il Labour oggi non riesce a ottenere elezioni anticipate e a vincerle, è perché è guidato da un leader che ha portato le proprie contraddizioni euroscettiche al vertice del più grande partito di sinistra rimasto nel vecchio continente. Nei tempi più recenti, Brexit è stata oggetto di un lungo dibattito dentro i Tory prima di diventare un referendum del popolo britannico.

 

Così come l’origine del pasticcio di Brexit è tutta partitica, allo stesso modo il post referendum è dettato dal dibattito interno ai due partiti. Nel Labour all’opposizione, è influenzato dalle contraddizioni di Jeremy Corbyn. Nei Tory al governo, è condizionato dalle diverse modalità di gestione (hard Brexit o soft Brexit) che dividono i conservatori. Così se Theresa May non pare proprio una nuova lady di ferro che batte i pugni sul tavolo, tuttavia riesce a utilizzare il dibattito interno al suo partito per contenere le spinte populiste interne ai Tory. Pur non essendo una “strong leader”, la sua capacità di usare il partito come strumento di contenimento dello scontro e di produzione di una sintesi politica, ha finora, di fatto, salvato la sua leadership.

 

Macron un partito invece non ce l’ha. Da bravo “strong leader”, si è inventato un movimento personale che non ha una precisa identità politico-culturale, eccezion fatta per il pur meritevole richiamo all’europeismo. Ha quindi scelto di cavalcare, esasperandola, la crisi del sistema dei partiti della Francia democratica. Ma non sta dedicando un minuto del suo tempo a costruire un sistema dei partiti alternativo. Il suo movimento non conosce insediamento territoriale, figuriamoci radicamento. I suoi eletti all’Assemblea generale sono parlamentari per lo più improvvisati, che di passare ore e ore tra i lavori di commissione e le riunioni nei collegi non hanno proprio voglia. Evidentemente Macron pensa di poter fare a meno di un partito organizzato che svolga la funzione che i Tory esercitano per la May.

 

Nel partito di Theresa May, fondato 350 anni fa, ci sono correnti, avversari interni, verifiche di maggioranza: c’è chi vorrebbe lo scalpo del primo ministro, chi sostiene il suo operato, chi ha posizioni più mediane. Nel partito personale di Macron sono tutti macroniani. Non avendo la Francia un articolato sistema dei partiti che sappia razionalizzare gli irrazionalismi sempre presenti nell’opinione pubblica, quegli irrazionalismi trovano sfogo indossando un gilet giallo. La caratura di “strong leader” non serve a Macron per arginare spinte irrazionali che, in tempo di populismo, raggiungono punte estreme di esasperazione. Se la May si può servire del suo partito e del sistema britannico dei partiti per dare razionale rappresentanza all’irrazionalismo imperante, di fronte alle proteste di piazza Macron non può che fare, più che En Marche, retromarcia. Perché puoi anche abbattere un sistema dei partiti, ma poi devi sostituirlo con qualcos’altro di altrettanto strutturato.

 

Macron ha poi un problema oggettivo in più, che non dipende da lui. Il semipresidenzialismo combinato col doppio turno è un sistema istituzional-elettorale molto performante. Di fatto trasforma una debolezza (il risultato conseguito dal candidato presidenziale al primo turno) in una gigantesca forza (la conquista dell’Eliseo al ballottaggio). E però se, arrivato all’Eliseo, non puoi poggiare la decisione di governo su una dinamica funzionate della rappresentanza politica, la decisione di governo risulta minata sul nascere. In parole povere: se vuoi fare le riforme, hai bisogno di un partito che ti aiuti a spiegarle, a correggerle, a realizzarle. Senza l’aiuto dell’articolazione stato per stato, contea per contea, città per città, dei Democratici americani, Obama non avrebbe mai portato a casa l’obamacare. In quel caso Obama è stato bravo a collaborare col suo partito. Ma Macron un partito non ce l’ha e la cosa pare che gli interessi poco o nulla.

 

In piena bagarre populista i cosiddetti leader forti fanno fatica a durare nel tempo. Soprattutto se pretendono di essere “strong leader” nel campo di quella sfida “impopulista” di cui parla Paolo Gentiloni nel suo libro. Di più. Quando un leader “impopulista” per avversare i populisti prova somigliare a loro, l’effetto caricaturizzante è una fatale, inevitabile conseguenza. Piuttosto che esercitarsi in pose decisioniste, i leader che vogliono provare a non lasciarsi travolgere dalla corrente del fiume populista, dovrebbero provare a rilanciare il contenuto storico e il senso generale della delega democratica di rappresentanza. Provandosi nel tentativo di riassettare le strutture portanti di quella delega, dovrebbero in primis occuparsi di riorganizzare un sistema dei partiti adeguato ai tempi.

 

La “sbiadita” May ha mostrato una notevole capacità di tenuta, a differenza di Macron, che si è fermato a qualche bel discorso

Il primo ministro inglese riesce a utilizzare il dibattito interno al suo partito per contenere le spinte populiste presenti tra i Tory

Theresa May riequilibra i limiti di temperamento e di fantasia politica della sua leadership attraverso un continuo confronto-scontro col suo partito. Forse, come ha dichiarato, non si candiderà per un nuovo mandato. Ma se l’avrà vinta nel chiudere la partita con Barnier, Junker e Tusk, potrà ben dire di aver dato un contributo importante in una fase assai complessa nella vita del proprio paese. Emmanuel Macron, a meno di non maturare la consapevolezza che il suo profilo di “strong leader” non lo porterà da nessuna parte senza un’appropriata riorganizzazione del sistema dei partiti, rischia di essere la promessa più mancata della politica europea degli ultimi anni. La sua marcia indietro, dopo i tumulti di piazza, ricorda molto i passi indietro di Jacques Chirac dopo i propositi riformisti in tema di pensioni o di riforma del lavoro. La chiracchizzazione di Macron è un contrappasso amaramente ironico.

 

Nel 1924, cinque anni prima del crollo di Wall Street e dell’inizio della Grande Depressione, Franklin Delano Roosevelt scriveva: “Vorrei che i Democratici in tutto il paese fossero più uniti, si liberassero della loro faziosità e del loro provincialismo, instaurassero migliori rapporti con la stampa e dessero una base finanziaria più solida all’organizzazione nazionale del partito”. Nel suo The Myth of the Strong Leader, Archie Brown descrive Roosevelt come il perfetto “redifining leader”, un leader cioè che determina tali cambiamenti nella società che è impossibile tornare indietro. Roosevelt riuscì a produrli rivoltando come un calzino il suo partito, imbruttito com’era dalle corruttele di Tammany Hall e infiacchito dall’indolenza intellettuale che il carrierismo politico reca sempre con sé.

 

In un’epoca, la fine degli anni Venti, in cui in Europa il populismo portava democraticamente al governo alcuni dei peggiori dittatori che la storia ricordi, l’America si affidò a un leader politico capace, tra sconfitte e vittorie, di assorbire col New Deal le spinte irrazionaliste che animavano il dibattito pubblico statunitense. Ci riuscì grazie al suo personale talento, all’abilità di circondarsi degli uomini migliori e alla felice intuizione di fare del proprio partito uno strumento formidabile di governo al servizio dell’interesse generale della nazione.

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