Matteo Renzi (foto LaPresse)

Il giusto passo in avanti di Renzi

Giuliano Ferrara

L’idea del Renzi di nuovo segretario avrebbe senso, si saprebbe che c’è uno scapestrato boy scout con la testa sulle spalle a organizzare i resti di un esercito senza capi. Dal Pd a Macron: come evitare due bah

E’ vero che noi cosiddetti intellettuali o politologi non capiamo più niente, “ma da mo’!”, come recita una bella battuta di cinema, però certe cose hanno dell’elementare, del primitivo, del raziocinante originario, a me pare. Dunque. Prendiamo Renzi, ché Panebianco non è il solo a scocciarsi del tiramolla, mi candido non mi candido, se non altro perché con i tempi che corrono un’opposizione compos sui sarebbe non sgradita. Allora: lui ha perso il 4 dicembre. Separatosi dal cinque, sei per cento berlusconiano potenziale nazarenico, e mettendo tutti assieme i nemici dell’accozzaglia, ha cannato il referendum. Non rivanghiamo. E’ un fatto. Si è dimesso, ma non si è suicidato, Dio ne guardi, né è entrato nel settore privato, niente Palo Alto, niente Africa, al massimo un doc veltroniano sulla bellezza che ci salverà eccetera. Quindi è lì, a indisposizione di tutti e di nessuno, senatore, giovane-vecchio leader impopolare. Ed è morettianamente incerto: mi si nota di più se ci sono o se non ci sono? Boh. Ma la politica vorrebbe dire modestamente la sua. Ecco.

 

Andatosene lui, è arrivato un suo fedele ministro degli Esteri come presidente del Consiglio. Gentiloni, I presume. Garbato, non ha risolto il problema e non per sua colpa. Non si è slacciato dalla mala parata d’opinione, l’ha gestita con eleganza ed è accaduto per adesso l’irreparabile. Hanno vinto i puzzoni. E lui, con tatto, è andato a Anzio, frutti di mare. Crisi, caos, depressione (non la mia, vorrei rassicurare Belpietro che, irritato per un mio sberleffo, è preoccupato per la mia salute: sto benone, malgrado l’assenza dagli schermi televisivi, che forse a lui sarebbe fatale perché è veramente un bell’uomo, ma non è nemmeno detto, io non sono ancora morto). Nel grigiore ovvio della rotta, ecco s’avanza Zingaretti. Poca roba, obiettivamente. Il Lazio, ecco, qui c’è Marino, la sagra c’è dell’uva, un’alleanza periclitante con i giallastri dei 5 stelle, una vittoria a metà, niente di sfolgorante, e un programma e modi di comunicazione da Circonvallazione Subaugusta travestita da Piazza Grande. Poi Martina, bravo tipo, si è anche fatto crescere la barba per guadagnarne in similvirilità, fa smorfie per le strette di mano del Truce, dice e ridice cose scontate: banale, non accende, nemmeno accoppiato in unione civile con quel figaccio di Richetti. Poi c’è Calenda, ottimo massimo, un pezzo da novanta del ragionare politico e finanziario, un passato da tecnico imprestato a politiche che non si sono mai viste, montezemoliane, infine promosso al suo livello di vera competenza da Renzi stesso, e in anticipo nel captare la falla, la verbosa tendenza a incepparsi di tutto il meccanismo: ma anche lui, per accendere, dovrebbe essere altra cosa da un neofita del Pd che un giorno c’è, si tessera, l’altro non c’è, e forse al Congresso non partecipa. Infine Minniti, un tesoro di viminalista e un drago dei servizi, un ex Lothar di talento, pieno di esperienza ma con un format parecchio sghembo: vuole i voti di Renzi ma non è il candidato di Renzi. Ne è nato un permale, con ritirata incorporata. Questo è quanto, e Corallo, un qualsiasi Corallo, è ancora parecchio acerbo, con il suo magico afro-style. Le donne del Pd? Invece di candidarsi, rompono. Dunque? 

 

Dunque l’idea di Renzi che esce dal suo buchetto e si candida e torna segretario, che fa raccapriccio a quanti gioiscono nel considerarlo uno zombi fuori dai sondaggi che contano, è o dovrebbe essere l’unica soluzione possibile. Se quelli del Pd lo votassero, non sia mai, ne guadagnerebbero un segretario che la sua carriera di leader se l’è costruita, che ha passato la fase della sconfitta e della vittoria, e poi ancora della leadership spianata nazarenicamente e della sconfitta dal sapore finale, nel frattempo realizzando al governo cose che noi umani e d’alemiani non avremmo mai immaginato. Comunque, uno che c’è, anche quando sembra distratto, e con l’autorità per dire: questo si deve fare, l’opposizione al governo per l’alternativa, e questo non si deve fare, la corte a Fico e ai grillozzi per combattere, ohibò, la destra! Non sarà una scelta umile, non sarà un’autocritica fatta a puntino, ma il ritorno del ragazzaccio avrebbe un senso, si saprebbe che c’è di nuovo uno scapestrato boy scout con la testa sulle spalle a organizzare i resti di un esercito disperso e senza capi militari. Va’ avanti, Renzino!

 

Prendiamo ora Macron, Manu, un altro dei miei sfortunati amori. Non so che cosa avrà detto stasera, ieri sera per chi mi legge stamane. Una cosa è certa comunque, anche se dovesse cospargersi il capo di cenere. L’Economist ha scritto, cosa rara da quelle parti, la scemenza delle scemenze: avrebbe dovuto mostrare più umiltà, dicono. Ora, è vero che a tratti Macron è parso un po’ ribaldo, a parte il grande Alexandre Benalla, lì ci aveva azzeccato: gente di stato capace di menare le mani per strada a Parigi è più che necessaria. Ma a parte quel dettaglio, e certe bavures di linguaggio, la cosiddetta pedagogia di Macron, oggi così ostica e osteggiata a pallettoni dai gilet gialli maledetti, quei suoi mi dia del lei, attraversi la strada e vedrà che un lavoro lo trova, i primi di cordata se precipitano si portano dietro anche gli altri, i galli sono refrattari al cambiamento (s’intenda: liberale, riformatore), bè, quella pedagogia jupitérienne, il potere verticale, il presidente non normale cittadino, il capo che incarna, è qualcosa di “consustanziale”, concetto teologico-politico estraneo allo snobismo degli anglosassoni millsiani della City, al suo programma e alla sua avventura. I francesi de souche, cioè i burini, ce l’hanno con lui, si sono sentiti disprezzati: erano il 48 per cento al primo turno delle elezioni, e avevano un programma parte nazionalista antieuro e parte madurista, sono stati sconfitti da una carambola politica mai vista, con socialisti e gollisti dietro l’angolo, il sistema rivoluzionato, e le promesse di una azione di governo trasformativa, del profondo, inaudita nella storia antiliberale del paese che si dice nemico dell’Argent Roi, emesse con la voce delicata di un capo intellò che non si era mai mascherato da demagogo popolare.

 

Renzi a casa, senz’arte né parte, e un qualsiasi qualsiasi al comando per disfare il Jobs Act e la Fornero e la scola bbona in combutta con i grillozzi: bah. Macron dietro la lavagna, che invece di cambiare com’è giusto elementi squilibrati di una politica troppo market-oriented e troppo stupidamente verde (che palle la guerra al diesel, a volte mi viene da mettermi in gilet) per imparare l’umiltà dei modi alla Sarko e alla Hollande: bah.

Di più su questi argomenti:
  • Giuliano Ferrara Fondatore
  • "Ferrara, Giuliano. Nato a Roma il 7 gennaio del ’52 da genitori iscritti al partito comunista dal ’42, partigiani combattenti senza orgogli luciferini né retoriche combattentistiche. Famiglia di tradizioni liberali per parte di padre, il nonno Mario era un noto avvocato e pubblicista (editorialista del Mondo di Mario Pannunzio e del Corriere della Sera) che difese gli antifascisti davanti al Tribunale Speciale per la sicurezza dello Stato.