Matteo Renzi e Paolo Gentiloni (foto LaPresse)

Il sonno del Pd

Salvatore Merlo

Renzi e Gentiloni ai minimi termini. Zingaretti individuato come “meno peggio”. Molto apparato poche idee

Roma. In questo momento il Pd è una rete intrecciata di inutilità e ferinità di rapporti, dove la politica, intesa come scontro di idee, visioni e orizzonti, è apparentemente scomparsa, sommersa da micro calcoli di potere, afasie, sonnolenze, tentativi di autoperpetuazione da parte di quella che un tempo veniva chiamata la classe eterna, in un clima rattrappito in cui il nome di Nicola Zingaretti scintilla agli occhi di molti come una necessità di sopravvivenza. Paolo Gentiloni e Matteo Renzi non si parlano dal 5 marzo, e lo raccontano entrambi a chiunque, ciascuno con un gusto ritorto, come chiusi dentro qualche dolore o dispetto che li separa. Renzi considera all’incirca Gentiloni la causa della sconfitta alle elezioni e Gentiloni rimprovera Renzi di non aver cercato la tregua interna, che secondo lui e i suoi sostenitori – per i quali Gentiloni sarebbe dovuto diventare segretario unitario – era la precondizione d’una ripartenza del partito nell’epoca del sovranismo al potere. Questo conflitto umorale, screziato di sospetti e gelosie, ha contribuito a spingere Gentiloni, ma non soltanto lui, verso Zingaretti, il presidente della regione Lazio che a molti mesi di distanza dal congresso ne è già di fatto il vincitore, lui che già riunisce attorno a sé tutto ciò che nel Pd non è Renzi. Dunque Gentiloni e Dario Franceschini, Michele Emiliano e Walter Veltroni, uomini distanti per linguaggio e antropologia. Persino il fuoriuscito Massimo D’Alema ieri ha detto (promessa o minaccia?): “Non sarei indifferente al Pd di Zingaretti”.

 

Ma il paradosso è che nessuno di loro in realtà sostiene Zingaretti perché li accende di entusiasmo, ma soltanto perché è il meno peggio tra ciò che gli si para davanti. E la cosa incredibile è che nessuno ne fa mistero. Sembra infatti che nelle sue conversazioni private Veltroni l’abbia addirittura teorizzata la strategia del “meno peggio”, superando un’iniziale ritrosia perché, come dice un suo vecchio amico, “Zingaretti è un bravissimo ragazzo ma è un praticone romano”, insomma non ce la fa nel gioco grande. Ma quali sarebbero le alternative? Neanche Renzi in realtà le trova. Come dimostra il pasticcio sulla candidatura di Anna Ascani, promossa dal mondo renziano e subito scaricata dallo stesso Renzi. 

    

Qualcuno aveva suggerito all’ex segretario il nome di Marco Bentivogli, il segretario dei metalmeccanici Fim, che ha ricevuto più d’una telefonata. Ma a Renzi Bentivogli “sta stretto”, dicono. Troppa personalità, forse. Poco affidabile, di sicuro. E allora vincerà Zingaretti, sfidato da due o tre candidature utili soltanto al calcolo aritmetico delle percentuali e degli equilibri interni, tra renziani e non, in una contesa in cui stenta persino a decollare la contrapposizione politica tra quanti ritengono possibile un dialogo con i Cinque stelle (Zingaretti lo ha quasi detto, ma poi se l’è parzialmente rimangiato) e Renzi che ha invece coniato l’hashtag #senzadime ai tempi in cui sembrava possibile un governo del Pd con Luigi Di Maio e Roberto Fico.

  

Fosse infatti con chiarezza una sfida tra quanti immaginano che i grillini siano una costola della sinistra, tra quanti ritengono che Di Maio vada soltanto guidato e dirozzato e quelli che invece ritengono il populismo incompatibile con la cultura democratica occidentale, quello interno al Pd sarebbe forse un confronto accettabile, politicamente denso, chissà persino interessante. Accenderebbe l’attenzione e la vitalità di un mondo che cerca rappresentanza. Ma non è così. Al contrario le grandi questioni rimangono sullo sfondo, vaghe, pasticciate, e piuttosto ci si pesa come sulla bilancia del mercato, ci si conta, e già si fanno proiezioni fosche sul prossimo futuro perché forse più dell’incompatibilità politica all’interno del partito emerge sempre di più un’incompatibilità personale, caratteriale, ambientale, di cui il reciproco mutismo tra Gentiloni e Renzi è una manifestazione sintomatica. Il cosmo composito che sostiene Zingaretti sa benissimo che Renzi contribuisce in misura considerevole a quel 18 per cento a cui si è ridotto il Pd nei sondaggi. Ma tutti sanno pure che la convivenza con Renzi, specie se non è lui al comando, è un torrone durissimo da masticare. E allora già adesso si fanno ipotesi sulla sua fuoriuscita dal partito: va spinto fuori rischiando di perdere consensi, o va tenuto dentro sapendo che non è gestibile? Tentazioni speculari a quelle che, non da oggi, coltiva anche Renzi, quando vagheggia una “cosa” macroniana. Tutto va avanti così, tra stiracchiamenti e timori, con un certo torpido compiacimento e un’estetica delle rovine.

  • Salvatore Merlo
  • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi erasmiana a Nottingham. Un tirocinio in epoca universitaria al Corriere del Mezzogiorno (redazione di Bari), ho collaborato con Radiotre, Panorama e Raiuno. Lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.