Graziano Delrio (foto LaPresse)

Delrio con Macron

David Allegranti

L'ex ministro ci spiega perché il Pd non può fare a meno del progetto europeista del presidente francese (a una condizione)

Roma. Il prossimo congresso inevitabilmente metterà in discussione l’identità del Pd se non, addirittura, la sua utilità. Graziano Delrio, capogruppo alla Camera, è convinto che il dibattito sulla rinascita del centrosinistra non possa che ripartire da un’analisi critica del capitalismo: “La parola della sinistra, sempre valida e potente, è uguaglianza”, dice al Foglio. “Vede, l’economia capitalistica ha raggiunto l’esaurimento della sua fase propulsiva. Certo, resta uno dei perni della democrazia liberale - sarebbe da sciocchi non riconoscerlo - e negli ultimi duecento anni ha permesso di far avanzare il mondo nel suo complesso”. 

 

“Lo dico da non tifoso, è un dato di fatto”, aggiunge Delrio. “Il capitalismo ha però sempre sottovalutato alcune grandi questioni, come quella ambientale. Oggi crea grandi opportunità nei paesi emergenti ma ha finito la sua spinta nei paesi occidentali maturi. Negli ultimi anni la ricchezza si è concentrata in poche mani non produttive. Questo capitale improduttivo non genera più ricchezza e non permette la redistribuzione. Genera casomai l’economia dell’‘1 per cento’; pochissime persone sempre più ricche. Il restante 99 però non vede alcuna opportunità. Serve dunque un nuovo modello di sviluppo, economico, sociale e di relazione”.

 

Delrio vede una grande battaglia “tra un capitalismo capace di rigenerarsi al suo interno e la degenerazione finanziaria dell’economia, che produce profitti ma senza lavoro e imprese, distruggendo così la radice stessa del modello di sviluppo occidentale. La critica più puntuale negli ultimi mesi l’ha fatta la Chiesa nella Commissione giustizia e pace, che ha prodotto un’analisi molto approfondita sulla degenerazione della finanziarizzazione del capitalismo. Questo modello di sviluppo, insomma, va ripensato. Non si può più dire, come sostengono gli economisti liberali classici, che se si alza la marea tutte le barche galleggeranno. Abbiamo una grande sfida davanti: dire che la democrazia liberale crea sì una società aperta, in cui c’è libertà di impresa e di competizione ma che non può essere la società dell’1 per cento”.

 

Oltre all’economia, aggiunge Delrio, c’è un aspetto “relazionale” da affrontare, perché la “crisi crea persone sole e arrabbiate. La politica deve iniziare a pensare a luoghi di protezione e di comunità. Io sono uno storico, fervente e osservante autonomista. La promozione delle comunità locali e il loro radicamento sono la risposta alle tentazioni protezionistiche dei populisti, che non servono a rinsaldare i legami ma solo a individuare un nemico. Questa è la principale differenza fra noi e i populisti. In questa fase storica il popolo viene usato come tifoso e spettatore di uno spettacolo che i populisti vogliono imbastire. Noi invece vogliamo un partito popolare in cui il popolo partecipa e nel quale diritti e doveri stiano insieme. E’ un approccio completamente diverso”.

 

Investire sulle comunità locali si traduce in un investimento “sulle classi dirigenti locali, utili a creare identità multiple, non circoscritte, come già insegnava Carlo Azeglio Ciampi quando diceva di essere livornese, italiano ed europeo. Il Pd deve essere quindi un partito né troppo pensante né troppo pesante ma presente e in ascolto dei territori. Deve essere – come una volta disse Aldo Moro a proposito della Democrazia Cristiana parlando ai gruppi parlamentare – un partito al tempo stesso liberale e sociale”. Il Pd ha un problema di classe dirigente? “Noi siamo arrivati al governo con un gruppo dirigente composto da molti sindaci. Io, Matteo Renzi, Roberto Reggi. Siamo stati e tutt’ora ci sentiamo amministratori locali. Io credo che la classe dirigente degli amministratori abbia più potenzialità. Nel Mezzogiorno ci sono giovani e donne che forse abbiamo lasciato un po’ troppo da soli a combattere contro i notabilati locali. Sono ragazzi e ragazze che hanno un grande senso di giustizia sociale e lottano contro la corruzione e la mafia. Non credo che oggi abbiamo un problema di classe dirigente ma dobbiamo farla emergere”.

 

Al congresso non si potrà che discutere, inevitabilmente, di immigrazione. Un altro tema sentito da Delrio. “Credo che dobbiamo rivendicare un atteggiamento verso il fenomeno migratorio diverso da quello della destra. Per me, prima di tutto, c’è il fatto che ogni persona è uguale e questo principio oggi è molto in discussione. Ma su questo tema non esiste una discussione interna nel Pd, perché la lotta all’immigrazione clandestina è un principio fortemente condiviso dai governi Renzi e Gentiloni. Siamo convinti che si possano contrastare gli scafisti senza dimenticare le motivazioni umanitarie, tenendo insieme insomma cervello e cuore. Questo governo invece ha commesso numerose violazioni del diritto internazionale”. Matteo Orfini dice che il Pd sull’immigrazione, con Marco Minniti, ha usato le parole della destra. Delrio concorda quantomeno su un punto: “Sono d’accordo con Orfini quando dice che dobbiamo essere radicali sui nostri principi, favorendo lo sviluppo dell’Africa e salvando ogni vita in mare. Ma non credo che ci siamo mai adeguati a slogan discriminatori”.

 

Emmanuel Macron, ieri criticato in un’intervista da Nicola Zingaretti su Repubblica, la convince? Pensa che possa essere il leader degli europeisti? “Macron è un pezzo di questo progetto europeista, ma penso che ci sia bisogno di molto altro per ricostruire l’Europa. Ho visto in lui germi importanti di novità come il ministero della transizione ecologica e vedo in lui un ottimo discorso sull’Europa, ma dentro il suo partito non c’è ancora il ripensamento del modello di sviluppo capitalistico. Da ministro abbiamo collaborato bene col governo francese su trasporto pubblico e sostenibile. Per il resto però non c’è riflessione su una nuova economia e finanza che invece sarebbe molto utile per costruire un nuovo movimento riformista e popolare”. A sentire Delrio, questo sembra quasi il manifesto di una sua candidatura. Non è che l’ex ministro delle Infrastrutture si presenterà al congresso? “No. Sui territori ci sono tante meravigliose energie. Io ho fatto la mia parte nel 2012 e ho promosso una classe dirigente locale. Adesso voglio soprattutto aiutare e appoggiare qualche giovane che forse avrà bisogno di consigli”.

  • David Allegranti
  • David Allegranti, fiorentino, 1984. Al Foglio si occupa di politica. In redazione dal 2016. È diventato giornalista professionista al Corriere Fiorentino. Ha scritto per Vanity Fair e per Panorama. Ha lavorato in tv, a Gazebo (RaiTre) e La Gabbia (La7). Ha scritto cinque libri: Matteo Renzi, il rottamatore del Pd (2011, Vallecchi), The Boy (2014, Marsilio), Siena Brucia (2015, Laterza), Matteo Le Pen (2016, Fandango), Come si diventa leghisti (2019, Utet). Interista. Premio Ghinetti giovani 2012. Nel 2020 ha vinto il premio Biagio Agnes categoria Under 40. Su Twitter è @davidallegranti.