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Rifondazione sindacale

Marianna Rizzini

Come creare una coalizione per la produttività tra Cgil e industria? Parla Massimo Bonini (Cgil Milano)

Roma. Dalla Cgil, Massimo Bonini, segretario generale della Camera del Lavoro di Milano, dice “sì all’idea di una grande coalizione sindacato-impresa, anche ampliata alla politica e ai ‘cervelli’ del paese, cioè al mondo universitario – una sinergia che dovrebbe prima di tutto aiutare a superare la logica del conflitto fine a se stesso e a capire come sarà il mondo del lavoro tra dieci, quindici anni. Partiamo da una sensazione di insicurezza: chi può oggi dirsi sicuro? Il lavoratore ha bisogno di essere rassicurato sul fatto che qualcuno si stia occupando di lui nel momento in cui perde il lavoro. In questa ottica va bene fare un passo in avanti, a patto però che anche le imprese facciano lo stesso”. Sono tempi di autoanalisi per il sindacato, nei giorni di rodaggio del governo gialloverde. E di scelte. Susanna Camusso, segretario generale Cgil, si è mostrata aperturista (“il Decreto dignità va nella direzione giusta, ma non è un intervento organico…. Sui licenziamenti, va bene aumentare l’indennizzo, ma se non si reintroduce il diritto al reintegro, come pure il M5s aveva promesso…”). Dice invece Marco Bentivogli, segretario generale della Fim Cisl, intervistato ieri su questo giornale da Salvatore Merlo, che “il populismo sindacale” ha favorito il populismo politico” e che “la riscossa” deve “partire dalle parti sociali”. E ieri, sempre su questo giornale, il tema del “che cosa può e deve fare la Cgil” è stato lanciato in prima pagina dal direttore: “O si chiude con il passato o si chiude il sindacato”: “Il governo del cambiamento sta creando le condizioni per cambiare la curva dell’occupazione. Ragione per sognare una marcia dei quarantamila organizzata dalla Cgil senza Jerry Calà ma con gli imprenditori, e contro i veri nemici del lavoro”.

 

L’idea è quella di “creare le condizioni per costruire insieme con le imprese una grande coalizione finalizzata a esportare in Italia un modello di relazione tra le parti sociali simile a quello che la Germania ha conosciuto ben prima del famoso piano Hartz, quando, alla fine degli anni Novanta, i rappresentanti dei lavoratori e degli imprenditori decisero di allearsi per dare una spinta al proprio paese puntando sulle stesse priorità di cui oggi avrebbe bisogno l’Italia: un piano per la decentralizzazione della contrattazione sindacale e un piano per il miglioramento della competitività dell’industria”. Bonini è convinto che il cosiddetto “modello tedesco” troverebbe “molte resistenze” presso le imprese, e che la decentralizzazione della contrattazione sindacale non possa sostituire “il contratto nazionale, normalizzatore che permette di gareggiare tutti con le stesse regole”: “Si possono decentrare alcune materie, per snellire, ma stando attenti a restare nell’alveo del contratto nazionale”. Quanto al Jobs Act che i gialloverdi vorrebbero smantellare, dice Bonini che “la vera domanda da porsi, intanto, è questa: quanto risponde il Jobs Act ai cambiamenti in atto nel mondo del lavoro, per esempio alla perdita di posti per la crescita del lavoro automatizzato. Partiamo da qui. E smettiamo di considerare il sindacato una garanzia per garantiti, un’istituzione ferma che guarda solo all’articolo 18: a Milano noi assistiamo in vari modi anche le partite Iva. E forse, dal lato imprese, si potrebbe fare uno sforzo in più per investire in innovazione. C’è chi non sa che cosa sia il Piano Industria 4.0”. Quanto al governo Lega-M5s, dice Bonini, in tema lavoro ha della strada da fare: “Nel Decreto Dignità non c’è la reintegra, cosa che noi avevamo chiesto, manca la lotta all’evasione fiscale e sulla delocalizzazione c’è uno sguardo parziale. Sulle riforme del governo precedente, invece, più che sui numeri, mi concentrerei sulla qualità del lavoro: un numero in più può anche voler dire un occupato per un’ora al giorno in più”. Secondo i dati dell’Osservatorio milanese sul lavoro, nel 2017, dice Bonini, “i contratti a termine, rispetto all’anno precedente e in comparazione a quelli a tempo indeterminato, sono aumentati del 5 per cento. Nessuno ha più la pretesa di avere un contratto a tempo indeterminato a vita, ma allora bisogna lavorare sulla riqualificazione e sulla presenza di un salario minimo in caso di perdita del lavoro: se non ce ne occupiamo, l’orizzonte per chi si sente senza tutela resterà nebbioso, con le conseguenze che conosciamo a livello di calo demografico e ripercussioni sul mercato, da quello immobiliare in giù”.

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  • Marianna Rizzini
  • Marianna Rizzini è nata e cresciuta a Roma, tra il liceo Visconti e l'Università La Sapienza, assorbendo forse i tic di entrambi gli ambienti, ma più del Visconti che della Sapienza. Per fortuna l'hanno spedita per tempo a Milano, anche se poi è tornata indietro. Lavora al Foglio dai primi anni del Millennio e scrive per lo più ritratti di personaggi politici o articoli su sinistre sinistrate, Cinque Stelle e populisti del web, ma può capitare la paginata che non ti aspetti (strani individui, perfetti sconosciuti, storie improbabili, robot, film, cartoni animati). E' nata in una famiglia pazza, ma con il senno di poi neanche tanto. Vive a Trastevere, è mamma di Tea, esce volentieri, non è un asso dei fornelli.