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A me, vecchio sinistro, non piace la subalternità di Calenda alla paura

Alessandro Dal Lago

Ho apprezzato diversi aspetti del manifesto politico pubblicato sul Foglio, ma trovo inaccettabile il modo in cui si affronta il discorso sulla sicurezza 

Al direttore - Ho letto ovviamente con interesse il manifesto politico di Carlo Calenda. Non entro nel merito delle proposte economiche, su cui non posso vantare alcuna competenza. Tuttavia, come vecchio sinistro o sinistrato (per dirla con i fascisti da tastiera) e soprattutto non pentito, ho apprezzato, oltre al realismo visionario, le parti sul sostegno agli “sconfitti” (una parola, però, che non mi piace) e sul ruolo della cultura e dell’educazione tecnico-scientifica per lo sviluppo del paese, di cui nel famoso contratto di governo grillo-legista non c’è traccia. Ma ho una forte perplessità sull’idea che un’alternativa seria al populismo nazional-digitale possa ripartire dal rafforzamento dello spirito nazionale o patriottico: il descamisado Salvini è abilmente riuscito, grazie al suo attivismo e più di qualsiasi compassato esponente del centrosinistra, a monopolizzare questa retorica e a trasformarla in voti. Mettersi sulla sua scia non sarebbe che un atto subalterno, un inutile inchino allo Zeitgeist.

  

Ciò che invece trovo inaccettabile nel documento è l’insistenza, al limite dell’ossessione, sulla paura. Una ragione del naufragio dei progressisti sarebbe “…l’esclusione del diritto alla paura dei cittadini e l’abbandono di ogni rappresentanza di chi quella paura la prova”. Più sotto: “Occorre affermare con forza che la paura ha diritto di cittadinanza. E rifondare su questo principio l’idea che compito della politica è rappresentare, anche e soprattutto, le attuali insicurezze dei cittadini”. Anche qui, la proposta è subalterna alla cultura – se vogliamo chiamarla così – in campo poliziesco e penale, dei Travaglio, Grillo, Salvini, Bonafede ecc. Inevitabilmente, il discorso sulla sicurezza è imbevuto di retorica giudiziaria e carceraria e ci fa regredire da Beccaria a Dracone. Ma è, soprattutto, un ritornello che si sente più o meno da 25 anni e che ha ben poco a che fare con la realtà. Un ritornello che non è servito a Minniti (“la percezione della paura è la paura”) a dare ossigeno al suo agonizzante partito.

   

Parlare di diritto alla “cittadinanza” della paura è una regressione a Behemot e ha qualcosa di inconsapevolmente totalitario. Thomas Hobbes ricorda nella sua autobiografia di essere nato insieme alla paura: “And hereupon it was my mother dear / Did bring forth twins at once, both me and fear”. Ma, perbacco, era la paura dell’Armada Invencible, che si apprestava ad invadere l’Inghilterra – non di centinaia di migliaia di esseri umani, poveri, fuggitivi o avventurosi alla ricerca, loro sì, di sicurezza. Certo, Calenda parla di paura come backlash delle “narrazioni” trionfalistiche della globalizzazione. Ma che futuro può avere un movimento politico o leader di centrosinistra che accetta le paure dei cittadini come risorsa energetica, in sostanza come serbatoio di consenso, invece di discuterle, decostruirle, prevenirle, dire la verità sul loro conto? Come il suo giornale ha già scritto, non c’è nessuna invasione di immigrati e rifugiati, né c’è mai stata in realtà. Si tratta di una sorta di grande bolla o balla annebbiante – che tuttavia nel nostro mondo di social è più reale del reale. Mi sarebbe piaciuto leggere qualcosa in proposito nel manifesto di Carlo Calenda.

  

Il centrosinistra ha giocato con l’insicurezza, percepita o no, e con la paura, da sempre – senza mai decidersi tra il piano poliziesco, come gli sgomberi dei rom da parte di Rutelli e di tanti altri sindaci Pd o il Daspo Minniti, o sul “sociale”. Se non altro, il centrodestra è sempre stato più esplicito e in un certo senso più onesto, anche se alla fine le pratiche erano le stesse. Ebbene, quello che manca davvero nel progetto di Calenda è un’idea di partito, di movimento o qualsiasi altra cosa che tra i suoi obiettivi ponga anche la corretta informazione del “popolo”, oggi in balia di influencer, hater, truffatori, demagoghi mediali e agitatori da strapazzo. Insomma un po’ della vecchia educazione politica, come ai tempi di Togliatti, anche se adeguata, naturalmente, alla nostra epoca digitale.

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