Luigi Di Maio e Matteo Salvini (foto LaPresse)

Perché l'ottimismo realistico è la chiave giusta per affrontare i poteri loschi dello sfascismo

Claudio Cerasa

Basta poco per dimostrare che la retorica moralista dei populisti non è compatibile con l’amministrazione di un governo. Ricette per costruire un futuro basato sull’agenda della realtà e non della percezione

Dopo aver osservato lo straordinario film comico offerto dal Movimento 5 stelle a Roma – impegnato a spiegare ai suoi elettori che un avviso di garanzia non è una sentenza definitiva, che un sindaco rinviato a giudizio non è un sindaco condannato, che un braccio destro arrestato non è un caso di sistema ma è un caso individuale, che un consigliere comunale del proprio partito arrestato indica non un albero infetto ma solo una mela marcia. Dopo aver osservato insomma come in fondo sia sufficiente far governare un po’ i populisti per dimostrare che la loro retorica moralista non è compatibile con l’amministrazione di un governo, ci sarebbe da essere persino ottimisti ragionando sul futuro del nostro paese e si potrebbe ribadire una teoria fin troppo lineare: se un incapace è capace a raccogliere voti ma non è capace a governare un paese – e se l’opposizione non è capace a dimostrare che un non capace non è capace di governare – occorre prendersi un po’ di tempo, mettere i nuovi “capaci” alla prova, allacciare bene le cinture, evitare di sottoscrivere mutui a tassi variabili e godersi lo spettacolo. Sapendo che un populista al governo quando si ritrova di fronte al principio di realtà di solito ha due strade: o impazzisce e collassa o cambia idea su tutto e prova ad andare avanti.

 

Ci sarebbe da essere dunque ottimisti, osservando i primi passi di questo governo, che sembra aver deciso di promettere continuità sulle cose che contano, con Padoan che elogia il successore Tria e con Salvini che zitto zitto al Senato ammette, lo ha fatto mercoledì scorso, che “il fenomeno migratorio ha registrato una diminuzione nell’anno scorso, grazie a operazioni utili e intelligenti di chi mi ha preceduto, sul fronte della riduzione del numero degli sbarchi, cosa alla quale cercherò di lavorare ancora di più”. E ci sarebbe da essere ottimisti osservando il modo in cui i grillozzi moralisti a Roma stanno scoprendo sulla loro pelle che alimentare il mulino del giustizialismo può essere utile quando sei all’opposizione ma diventa insostenibile quando ti ritrovi al governo – ormai basta un millantatore che ti accusa di aver fatto qualcosa per essere considerato colpevole fino a prova contraria. Eppure, e lo diciamo da ottimisti, essere ottimisti oggi è complicato. E non solo per le famose ragioni suggerite dal premio Nobel Richard Thaler, teorico dell’“unrealistic optimism”, l’ottimismo irrealistico, che altro non è che la tendenza a credere, senza alcun motivo, “di avere una probabilità maggiore di esperire eventi positivi sottovalutando la possibilità di fare esperienza di eventi negativi” (quando si vive in un mondo che funziona di solito si sottostimano le conseguenze che deriverebbero dall’uscita da un sistema che funziona). Anche per altro.

 

Essere ottimisti oggi non è semplice anche per un’altra ragione. E forse ve lo sarete chiesto anche voi. Ma perché in una fase storica in cui i delitti diminuiscono, la sicurezza migliora, la povertà diminuisce, il benessere si allarga, la speranza di vita aumenta, in cui la percentuale di bambini che non arriva al quinto compleanno si aggira attorno al 4 per mille (era il 44 per cento nel 1800), in cui le nazioni con la pena di morte sono passate dall’essere 193 nel 1863 a 89, in cui la percentuale di persone che vive in contesti democratici è passata dall’1 per cento del 1816 al 56 per cento del 2015, in cui la percentuale di donne a scuola è passata dal 65 per cento del 1970 al 90 per cento del 2015, in cui la percentuale di persone che ha a disposizione acqua non inquinata è passata dal 58 per cento del 1980 all’88 per cento del 2015, in cui le persone che hanno una connessione internet nel mondo sono passate dallo zero per cento del 1989 al 48 per cento del 2017, perché, dicevamo, in una fase storica in cui il mondo potrebbe andare meglio ma ogni giorno va un po’ meno peggio del giorno prima essere ottimisti è considerato un male assoluto? In altre parole: come si fa a essere ottimisti quando l’ottimismo viene usato come un gargarismo?

 

Essere ottimisti rispetto al futuro non è facile in Italia, per ragioni più legate alla politica che all’economia, ma il motivo per cui l’ottimismo è un tabù, in giro per il mondo, non è legato ai soggetti che governano un paese ma è legato a un tema perfettamente messo a fuoco qualche giorno fa sul New York Times da David Brooks: lo status quo. Brooks, lo sapete, è un grande intellettuale americano, maestro del conservatorismo, e qualche settimana fa ha avuto un’illuminazione. Subito dopo una sparatoria in America, in una scuola, Brooks ha invitato i suoi lettori a non essere troppo allarmisti e ha suggerito loro di seguire con attenzione la vicenda ricordando però in quale cornice analizzare il fenomeno. Punto numero uno: da anni le violenze con armi da fuoco nelle scuole sono in diminuzione. Punto numero due: il numero di studenti uccisi rispetto agli anni Novanta in America è crollato di quattro volte. Un fatto spiacevole, vomitevole, resta tale anche se non è un’emergenza. Ma, è il ragionamento di Brooks, per approfondire un tema occorre distinguere bene tra un problema e un allarme. Risultato: nel giro di poche ore, Brooks è stato insultato da gran parte dei suoi lettori. Alcuni lo hanno accusato di essere eccessivamente ottimistico. Altri troppo ingenuo o troppo infantile. Altri troppo distratto. Una lettrice però ha avuto un’illuminazione e ha capito che l’essenza dello scontro in corso in tutto il mondo tra pessimisti e ottimisti in fondo è questa.

 

Caro Brooks, ha scritto, le sue considerazioni dimostrano che lei è parte dello status quo. E allora eccolo qui il punto. In un mondo in cui, in nome del cambiamento, i pessimisti anti casta trionfano convincendo gli elettori che il mondo sta andando a farsi benedire, essere ottimisti, cioè provare a leggere il presente con i dati della realtà e non con i dati della percezione, significa essere contro chi vuole cambiare il sistema. Significa, in altre parole, essere nemici del cambiamento. E ogni persona che provi a spiegare perché il mondo non sta andando allo sfacelo come qualcuno vorrebbe far credere diventa automaticamente un amico dello status quo. L’ottimismo oggi è diventato un nemico del progresso e di conseguenza il pessimismo è diventato l’unico alleato possibile di quei populisti che promettono di cambiare il mondo e che poi però quando il mondo lo devono cambiare sanno che per non fare andare davvero il mondo allo sfacelo devono trovare un modo per camuffare la propria necessaria continuità con il passato. E’ il paradosso degli ottimisti: quando le cose vanno sempre meglio, il cambiamento non può che avvenire negando la realtà. E di fronte a questo nuovo paradigma i non pessimisti hanno due possibilità: o arrendersi al pessimismo, e omologarsi, oppure trovare un modo per sfidare il populismo pessimista con nuove idee popolari. Noi, per tornare all’Italia, un’idea ve la abbiamo offerta: disarmare la retorica del reddito di cittadinanza spostando le risorse dall’assistenza al lavoro e scommettendo forte sull’unica partita che nel nostro paese può portare gli anti populisti ad avere idee popolari per costruire un futuro: mettere più soldi nelle tasche degli italiani. Gli ottimisti hanno un problema legato alla coincidenza del proprio profilo con la difesa dello status quo. Per combattere i pessimisti senza diventare populisti – o peggio, pessimisti – trovare idee popolari è l’unica possibilità e in un certo senso l’ottimismo realistico è la chiave giusta per affrontare i poteri loschi dello sfascismo. Il tempo c’è, le idee non mancheranno e i moralisti prima o poi cadranno. E’ un momento difficile per essere ottimisti, ma essere anti catastrofisti resta l’unico modo per evitare che l’agenda della percezione possa dominare a lungo sull’unica agenda che dovrebbe essere al centro del governo di un paese: la realtà.

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.