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Non è certo con le formule del secolo passato che si sconfiggerà il fronte sovranista

Alessandro Maran

Il “marxismo evangelico” che si strugge nella giustizia, così caro a Cuperlo, non è una credibile alternativa a chi oggi ci governa

Al direttore - “Non è di maggio questa impura aria”, si saranno detti nelle scorse settimane dalle parti di Repubblica. E’ da un pezzo, infatti, che il giornale che ispira e guida la sinistra, forse ripensando ai versi di Pier Paolo Pasolini che dialoga con le spoglie di Gramsci, descrive un maggio autunnale (“In esso c’è il grigiore del mondo, / la fine del decennio in cui ci appare / tra le macerie finito il profondo / e ingenuo sforzo di rifare la vita”), molto diverso da “quel maggio italiano che alla vita aggiungeva almeno ardore” nel quale il giovane Gramsci delineava “l’ideale che illumina” il silenzio del presente.

   

Oggi che hanno vinto i populisti perché, si dice, la sinistra “ha smarrito il rapporto con il popolo”; ora che si tratta di imprimere una decisa virata a sinistra, di “coprire il vuoto”, di “fare il miracolo” (arruolando perfino Luigi De Magistris) e ricostruire il fronte democratico che verrà, ritorna la nostalgia canaglia. Concita De Gregorio rivuole “una politica dove più dello spread contano le persone” (una “strana pretesa”, ha commentato Massimo Bordin, visto che “l’arido indicatore economico condiziona i salari, i mutui, i risparmi delle persone. E di cosa dovrebbe occuparsi la sinistra se non di questo?”). Anche Michele Serra, che non si rassegna alla contrapposizione fra europeisti e sovranisti, fra coloro che rifiutano l’interdipendenza e coloro che la ritengono necessaria, lamenta la mancanza della sinistra italiana: “Un buco immenso. Una terra di nessuno lasciata incolta, non agguerrita, non attrezzata a questo pessimo momento della nostra storia italiana”. Walter Veltroni, intervistato da Scalfari, sostiene che il Pd deve recuperare il consenso perduto a sinistra verso l’astensione e i Cinque stelle e che “i valori democratici sono tutti presenti nel popolo, soprattutto quello delle periferie”. “I veri democratici sono lì”, scrive rapito Scalfari. Direbbe Pasolini: “… è per me religione / la sua allegria, non la millenaria / sua lotta: la sua natura, non la sua / coscienza …”.

  

Anche Gianni Cuperlo è tornato idealmente al cimitero degli inglesi. “Una nuova fase è iniziata”, ha annunciato nel suo intervento all’assemblea del Pd nel quale ha riferito, come se si trattasse di un passo del Vangelo, un episodio della vita di Gramsci, quando preferì la semplicità del “pane e casu” al buon cibo caldo e cucinato in casa che gli fu offerto, nei primi anni Venti del secolo scorso, da un delegato del Partito comunista di Oristano. Al prossimo congresso, dunque, l’alternativa a Matteo Renzi prenderà le mosse dall’insegnamento morale (e religioso) illustrato con sussiego da Cuperlo, giacché “la sfida al tempo che verrà sta nel riscopire chi siamo, unico vero modo per sentirsi pronti a rinascere”. In fondo, spiega Cuperlo, “la sinistra viene da lì”.

  

Ma si pensa davvero di sfidare la fenomenologia populista, lo scenario competitivo globale e i nuovi equilibri geopolitici con una prospettiva tanto nostalgica e provinciale? E soprattutto, da quando in qua l’ideale pauperista rappresenta il fondamento etico della sinistra moderna?

  

Nella parabola del “pane e casu” c’è una (più o meno consapevole) deformazione caricaturale della genesi storica, sociale e culturale del movimento operaio e di tutti gli altri filoni di pensiero – in primis quello cattolico e liberaldemocratico – che, nei paesi industrialmente avanzati, hanno contribuito in modo decisivo al processo di espansione dei diritti di cittadinanza. In tutto il mondo occidentale, stravaganze berlingueriane a parte, la sinistra non ha mai idealizzato l’austerità morale ed economica, né la condizione della povertà, combattendola per liberarsene. La sinistra, insomma, non “viene da lì”. Nel marxismo non c’è spazio per il rimpianto per il tempo andato e neppure per miti regressivi e consolatori, per società arcaiche e idilli agresti. Bisogna combattere la povertà, non la ricchezza, diceva del resto Olof Palme. E Anthony Crosland, una delle figure centrali della storia del Labour del Dopoguerra, autore nel 1956 di The Future of Socialism, sostenne addirittura che la socialdemocrazia non doveva significare solo pensioni migliori e maggiori esportazioni, ma anche divertimento (più caffè all’aperto e aperture notturne, per esempio), libertà nella vita privata, migliore qualità della vita. Inoltre, per Crosland l’uguaglianza non aveva a che fare solo con l’economia. La socialdemocrazia era più che “l’uguaglianza delle opportunità”, e non significava neppure “uguaglianza dei risultati” (che poneva limiti alla libertà e vanificava gli incentivi). Per Crosland i fini decisivi erano la social equality e la classlessness. Quel che contava era una maggiore parità di rewards, status and privileges.

  

Nell’insegnamento offerto da Cuperlo con l’episodio del “pane e casu” alligna invece un “marxismo evangelico”, agro-silvo-pastorale, che si strugge nella giustizia del passato prossimo. L’idea che, insomma, il mondo di ieri, prima che il rasoio elettrico, il computer, lo smartphone e mille altre diavolerie lo snaturassero, fosse (quello sì) un mondo a misura d’uomo.

  

Pier Paolo Pasolini, si sa, si definiva uno “sgraziato reazionario”. La sua polemica contro il totalitarismo della società dei consumi, l’individualismo, il ’68, la sua nostalgia per una società organica e tradizionalista e la purezza incontaminata della cultura rurale, sono tutti elementi tipici del pensiero antimoderno. Ma Pasolini era un poeta, non un dirigente politico. Cuperlo sa bene che è il nostro mondo postmoderno e individualizzato che gli permette di passare il tempo tra un simposio e l’altro e che le condizioni in cui quella “cultura contadina” prosperava (per modo di dire) erano terribili (le vacche erano sempre magre, la morìa dei polli sterminava regolarmente le galline e la malaria faceva altrettanto con gli uomini; e non è vero che la gente, in quanto più semplice, sapesse volersi più bene) e non hanno nulla a che vedere con la rappresentazione levigata che ne offrono i teorici della “decrescita felice” e della deindustrializzazione. Contrastare il populismo non è facile, come ci rammenta sul Nacional l’esule venezuelano Tulio Hernández. E non è certo con le formule del secolo passato che si può costruire una credibile alternativa al fronte sovranista e populista che ora governa il paese. Dobbiamo chiederci davvero “chi siamo” e dove vogliamo stare. Necessariamente. Il discrimine fondamentale della politica italiana (come di quella greca, francese, tedesca, olandese, inglese, spagnola, ecc.) oggi corre tra europeisti e sovranisti, pro o contro la strategia dell’integrazione continentale; e destra e sinistra, su ciascuno dei due versanti di questo spartiacque, costituiscono solo due declinazioni diverse di questa scelta fondamentale. Si tratta perciò di mettere a fuoco la realtà e di dire le cose come stanno. Probabilmente con parole e facce nuove. Il passato è passato. E come sapeva Alice, “It’s no use going back to yesterday, because I was a different person then”.

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