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La dura vita del riformismo italiano

Giuseppe Vacca

Lo stop repentino al profilo del centrosinistra riformatore fu uno spartiacque nella nostra storia politica

Col passare del tempo anche il giudizio sulla stagione del centrosinistra tende a cambiare. Una parte della storiografia più recente, ponendo l’accento sulla formula di governo, ne protrae la durata fino alla metà degli anni Settanta considerandolo “l’unico significativo allargamento dell’area democratica in tutto il periodo tra l’inizio della Guerra fredda e la caduta del muro di Berlino”. Ma in questo modo si eludono due problemi fondamentali della storia d’Italia: il primo riguarda i limiti del riformismo, tanto di governo, quanto di opposizione, emersi in quegli anni evidenziando problemi di lunga durata del paese; il secondo è il rischio di offuscare la discontinuità rappresentata in Italia dal Sessantotto, rendendo più difficile comprendere gli anni Settanta e il trauma della loro conclusione.

 

Giova quindi ritornare sugli anni Sessanta e approfondire le ragioni per cui il profilo riformatore del centro sinistra fu presto bloccato. Sia nella percezione degli osservatori dell’epoca, sia nelle che le riforme promesse dal centrosinistra si realizzassero era ed è concentrata molto spesso sul ruolo che avrebbe svolto il psi una volta entrato nel governo. Come è noto, il primo governo di centrosinistra “organico” si costituì dopo le elezioni politiche del 1963 che avevano vanificato l’obiettivo di ridimensionare la forza del Pci, emarginarlo e avviarne rapidamente il declino. Su quell’obiettivo convergevano due strategie diverse: quella della Dc, che puntava ormai a includere i socialisti nella coalizione di governo per allargare il consenso al suo progetto di modernizzazione, e quella del psi, che aveva puntato fin dal 1956 sulla possibilità di cambiare i rapporti di forza fra i due partiti della sinistra sfidando il Pci sul terreno dell’iniziativa politica e delle riforme. Tanto l’uno quanto l’altro disegno avevano subito un duro colpo poiché Togliatti, come abbiamo visto, aveva raccolto la sfida dimostrando che senza l’appoggio del Pci le riforme del centrosinistra non riuscivano a passare e in vista delle elezioni aveva confermato la disponibilità a sostenerle. Non fu dunque l’ostilità del Pci ad impedire che i governi di centrosinistra riuscissero per cinque anni a varare le riforme previste. Per spiegarlo ci si deve interrogare sull’esistenza di “risorse riformistiche” nel sistema economico dell’Italia del Dopoguerra e sulla cultura di governo dei protagonisti dell’“esperimento” e dello stesso Pci.

 

La distinzione tra sistema economico e sistema politico è ovviamente metodologica. Nella realtà, politica ed economia sono strettamente intrecciate; quindi è opportuno avviare l’analisi dal ruolo che aveva conquistato la dc nell’uno e nell’altro campo alla fine degli anni Quaranta. Alcide De Gasperi aveva realizzato una efficace saldatura fra politica ed economia, un “blocco storico” che avrebbe condizionato la vita italiana fino ai primi anni novanta. Le risorse offertegli dalla situazione – l’apertura dell’Italia all’economia internazionale e, dal 1950, il Piano Marshall – gli avevano consentito di fare della Dc il punto di riferimento di forze economico-sociali sia moderate che progressive. Inoltre l’“unità politica dei cattolici”, resa cogente dalla Guerra fredda, faceva sì che nella dc fossero obbligate a convivere tanto alcune correnti conservatrici, quanto una minoranza riformatrice che però aveva un ruolo essenziale per la legittimazione del partito presidiandone il profilo antifascista e i legami con i settori dinamici dell’Italia moderna. Ma anche le fondamentali riforme della prima legislatura repubblicana avevano riprodotto un modello di sviluppo fondato sull’“equilibrio dei bassi consumi”. Quindi il blocco storico degasperiano non poteva reggere alla modernizzazione del paese sia per gli squilibri territoriali e settoriali resi più acuti dal “miracolo economico”, sia per il peso crescente attribuito dall’industrializzazione alle classi lavoratrici e alle classi medie più moderne. Si poneva anche in Italia un problema già affrontato negli altri paesi europei all’indomani della guerra: quello di coinvolgere il movimento operaio nella modernizzazione fordista avviata in tutto l’Occidente dalla vittoria dell’alleanza antifascista sul nazismo.

Queste premesse appaiono necessarie per comprendere la crisi del centrismo dopo la sconfitta della “legge truffa” e il prevalere dell’opzione per l’“apertura a sinistra” all’interno della stessa Dc, sebbene le forze politiche che avevano sorretto i governi centristi non avessero alcun problema di aritmetica parlamentare. Infatti, la spinta a mutare la coalizione di governo si sviluppò autonomamente nella dc subito dopo le elezioni del 1953 per impulso delle sue correnti riformistiche piuttosto che per iniziativa del riformismo laico-socialista, come spesso accade di leggere ancora oggi.

 

Deficit di risorse riformistiche

“Fino al 1962-63 il modello di sviluppo italiano era strettamente legato a un regime di bassi salari nell’industria e ad un mercato interno debole”. Il balzo dell’Italia nella industrializzazione e nella gerarchia dei paesi più sviluppati non l’aveva messo in discussione, anzi, si era giovato dell’“equilibrio dei bassi consumi” che storicamente aveva fatto la differenza del capitalismo italiano dagli altri capitalismi europei. Anche l’Italia aveva beneficiato del ciclo economico internazionale e le classi dirigenti avevano saputo cogliere l’occasione per completare l’industrializzazione avviando la convergenza con gli altri paesi europei. Tuttavia, anche dopo il boom, le caratteristiche originarie dell’economia italiana non erano cambiate e sulle cause i pareri sono discordanti. Come è noto, una influente corrente di studi sostiene che la debolezza relativa del mercato interno sarebbe stata la conseguenza del modello di sviluppo export-led imposto dopo la guerra. Ma già nel 1973 Pierluigi Ciocca, in un saggio molto documentato, aveva confutato questa tesi, mostrando che il traino delle esportazioni aveva iniziato a caratterizzare il modello di sviluppo italiano non prima del 1964. Approfondendo le ricerche di Ciocca e di altri studiosi, Fabrizio Barca propose un convincente schema interpretativo dello sviluppo precedente il centrosinistra, sintetizzato nella formula del “compromesso straordinario”. La sua interpretazione ci aiuta a distinguere fra apertura dell’economia italiana al commercio internazionale e scelta di un modello di sviluppo export-led. La distinzione è quanto mai opportuna anche per contrastare la visione pessimistica dell’economia italiana che aveva in Guido Carli l’interprete più autorevole.

 

Nelle sue memorie, sebbene riconosca che si possa parlare di un modello di sviluppo export-led solo dal 1964, Carli confonde ad arte, forse per giustificare l’azione svolta all’epoca come governatore della Banca d’Italia, modello export-led ed apertura al commercio internazionale. Egli intende così suggerire l’idea che la manovra economica del 1963-64 fosse stata concepita in continuità con le scelte del dopoguerra: si era colpito il sindacato solo per ricreare le condizioni economiche che avevano favorito il boom del 1958-62. Ma il “miracolo economico” non era scaturito dall’apertura al commercio internazionale. L’industrializzazione del paese era stata realizzata grazie alle sue capacità interne di accumulazione e a una ingente propensione agli investimenti (statali, attraverso il finanziamento dell’industria di Stato e l’intervento straordinario, e privati, grazie alla capacità di accumulazione consentita alle imprese dai bassi salari e dalla assenza di inflazione). Ad ogni modo, l’“equilibrio dei bassi consumi” e le caratteristiche dell’industrializzazione avevano accresciuto gli squilibri territoriali e settoriali. Su questo le due scuole di pensiero concordano, anche se le differenze interpretative restano rilevanti. Apparentemente esse condividono la stessa critica alle classi dirigenti di aver affidato al commercio internazionale un ruolo eccessivo nei processi di modernizzazione, diversamente da quanto facevano gli altri paesi europei. In realtà sottintendono concezioni diverse del ruolo che avrebbe dovuto avere lo Stato rispetto al mercato. Forzando un po’, si può dire che la prima ritiene che vi sarebbero state maggiori possibilità in una prospettiva di più accentuato nazionalismo economico e chiama in causa le responsabilità delle classi dirigenti per la debolezza o l’inefficacia dello Stato programmatore; la seconda, che muove da una valutazione più positiva dei processi di internazionalizzazione, attira invece l’attenzione sulle colpevoli manchevolezze dello Stato regolatore. Come vedremo, è una diversità di vedute rilevante anche nel giudizio sull’“esperimento” di centrosinistra e nella distribuzione delle responsabilità per il suo fallimento. Qui conviene tornare all’analisi di Voulgaris che mette giustamente in luce come l’approfondimento dei dualismi fra i settori moderni e i settori arretrati dell’economia e della società facesse mancare un presupposto essenziale per il uccesso del “progetto riformista”: la relativa omogeneità della borghesia capitalistica. Poiché la sua unità, garantita dal “sistema di potere” della Dc (quello che, per sottolinearne l’irriproducibilità, Barca chiama il “compromesso straordinario”), si basava sull’“equilibrio dei bassi consumi”, le differenziazioni interne non le avrebbero permesso di mantenerla o di ricostituirla quando i bassi salari fossero venuti meno. Al progetto riformista mancava dunque una risorsa essenziale: la forza necessaria alla borghesia capitalistica per mutare atteggiamento verso il movimento operaio, accettando un rapporto “contrattualistico” con il sindacato. Questo spiegherebbe la virulenza, ma anche l’efficacia della manovra con cui Carli e il ministro del Tesoro Emilio Colombo, giustificando la loro scelta con la caduta del ciclo economico internazionale, colpirono con una stretta deflattiva il movimento sindacale neutralizzando preventivamente le velleità programmatorie del centrosinistra. Con il ripristino dell’“equilibrio dei bassi consumi” ricostruivano l’unità delle classi capitalistiche che il “progetto” del centrosinistra aveva messo in discussione e avrebbe potuto incrinare. Ma ciò ristabilì rapporti di forza favorevoli ai gruppi di interesse che si opponevano al centrosinistra (dall’esterno e dall’interno della coalizione di governo) e puntavano a fiaccarne l’impulso riformatore.

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