La legge modello Corazzata Kotiomkin

Luciano Capone

Il sovranismo cinematografico in prime time non aiuterà il cinema italiano

Roma. Il nuovo decreto per il cinema italiano in tv appena approvato dal governo è una riedizione del Secondo tragico Fantozzi. Gli spettatori italiani vorrebbero prepararsi come il ragioniere Ugo con frittatona di cipolle, familiare di Peroni gelata, tifo indiavolato e rutto libero per guardare la partita e invece saranno costretti a sorbirsi la “Corazzata Kotiomkin”. In questo caso a imporre la visione di cinema d’autore non è il prof. Guidobaldo Maria Riccardelli, ma il ministro dei Beni culturali (Mibact) Dario Franceschini. L’obiettivo della legge è nobile, la “difesa delle produzioni cinematografiche italiane” e la promozione della creatività e della cultura italiana, ma alla base c’è un’impostazione dirigista che risponde alle richieste del settore, ma non tiene affatto in considerazione la libertà d’impresa e soprattutto quella del pubblico.

 

La nuova legge prevede l’obbligo per tutte le emittenti televisive di trasmettere a regime il 60 per cento di opere prodotte in Europa, di cui una quota di almeno un terzo (la metà per la Rai) deve essere riservata a opere italiane, nell’arco di tutta la giornata. Ma non basta, perché la norma entra minuziosamente nei palinsesti, obbligando le emittenti a riservare nel primetime, la fascia oraria di maggiore ascolto che va dalle 18 alle 23, almeno il 6 per cento (il 12 per la Rai) del tempo settimanale a film, fiction e documentari italiani. Per la Rai l’obbligo è di due opere italiane a settimana. 

 

E gli spettatori non potranno neppure fuggire su internet, visto che l’imposizione di trasmettere italiano è estesa anche ai servizi on demand come Netflix. Il sovranismo cinematografico diventa così l’ultima frontiera dell’ideologia protezionista che sta penetrando in tutti i partiti, non solo quelli definiti populisti. Il decreto voluto dal ministro Franceschini, oltre agli obblighi di programmazione, prevede l’ampliamento degli obblighi di investimento. Le televisioni saranno anche obbligate a investire a regime almeno il 15 per cento degli introiti netti nell’acquisto o di opere europee, di cui almeno il 4,5 per cento italiane, di produttori indipendenti (per quanto riguarda la Rai la quota di investimenti obbligatori è più alta: 20 per cento di opere europee e 5 per cento italiane). A verificare il rispetto dei vincoli di programmazione e investimento ci sarà l’Agcom, che avrà anche il potere di imporre sanzioni che possono arrivare fino a 5 milioni di euro.

 

Naturalmente le reazioni dell’industria cinematografica e dei network televisivi sono opposte. I primi, i produttori, sono entusiasti e parlano di una “moderna visione dell’intervento pubblico” che è un “motore di sviluppo” per un settore “con potenzialità di sviluppo internazionale”. Mentre i secondi sono contrari, per la prima volta tutte le televisioni – Rai, Mediaset, Sky, Discovery, La7, Viacom, Fox, Disney e De Agostini – si sono trovate d’accordo e hanno scritto una lettera per denunciare “maggiori e insostenibili obblighi in tema di investimenti e programmazione” oltre a “forti limiti alla libertà editoriale”.

 

In questo contesto la situazione più imbarazzante e paradossale, che sintetizza la condizione schizofrenica del cinema di stato italiano, è quella della Rai. Perché Viale Mazzini è da un lato la principale televisione italiana e dall’altro il principale produttore cinematografico italiano attraverso Rai Cinema. Se il sistema del cinema di stato funzionasse, sarebbe un circolo perfetto: la Rai è costretta a investire in Rai Cinema, Rai Cinema produce prodotti italiani creativi e di qualità che la Rai è costretta a ricomprarsi e a trasmettere al pubblico. Il problema è che la buona parte dei film e delle fiction italiane non è di grande qualità, o quantomeno non sono produzioni gradite ai telespettatori, tanto che fa più ascolti un qualsiasi reality show o persino il monoscopio durante un blackout. E così finora la soluzione per rispettare la legge senza scacciare il pubblico era che la Rai mandava in onda alcune produzioni italiane nelle ore notturne. Ora però che la legge Franceschini impone una quota in prima serata, si arriva al cortocircuito totale: il principale produttore italiano, la Rai, protesta contro la norma a tutela delle (sue) produzioni italiane – in modi più edulcorati rispetto a quelli del ragionier Fantozzi – perché non vuole essere obbligata a mandarle in video.

 

Al di là delle posizioni e degli interessi dei vari attori economici in campo, bisogna chiedersi se la norma è utile a raggiungere gli obiettivi che si prefissa, ovvero “tutelare e valorizzare la creatività del cinema italiano”. Nella realtà accade il contrario. Un recente volume pubblicato dal Mulino, dall’eloquente titolo “Il cinema di Stato – finanziamento pubblico ed economia simbolica nel cinema italiano contemporaneo” descrive perfettamente qual è il risultato di anni di dirigismo: atrofizzazione del settore, scarsa creatività, appiattimento e scollamento con il pubblico.

 

Il cinema di stato, che accudisce le pellicole dalla culla alla sala, produce film che pochi vedono e che anche a quei pochi sembrano già visti: stesse storie impegnate, stessi canoni, stesso intento pedagogico, spesso stessi attori. Lo stato, attraverso il Mibact, Rai Cinema e le film commission, a cui si aggiungono agevolazioni come il tax credit, finanzia quasi la totalità delle produzioni. Tutto questo interventismo però ha prodotto risultati opposti alle nobili intenzioni: non ha emancipato il sistema ma lo assiste, non ha permesso al settore di rafforzarsi per conquistare il mercato mondiale ma costringe a dosi sempre maggiori di protezionismo dai “film stranieri”, non ha fatto emergere giovani talenti e creatività ma ha perpetuato i soliti noti con le solite idee. Questo perché il cinema di stato ha modellato anche i contenuti, visto che chi pensa i film non ha in mente gli spettatori ma le commissioni statali che devono finanziarlo.

 

Alla fine gli italiani, che pure finanziavano film che non andavano a vedere o che non venivano neppure programmati, avevano quantomeno la libertà di guardare i loro programmi preferiti in tv. Ora lo stato impone la visione di film pedagogici e impegnati in stile Mibact in primetime. Il rischio per gli spettatori è di scivolare piano piano dal modello “Corazzata Kotiomkin” di Fantozzi alla “cura Ludovico” di Arancia meccanica.

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  • Luciano Capone
  • Cresciuto in Irpinia, a Savignano. Studi a Milano, Università Cattolica. Liberista per formazione, giornalista per deformazione. Al Foglio prima come lettore, poi collaboratore, infine redattore. Mi occupo principalmente di economia, ma anche di politica, inchieste, cultura, varie ed eventuali