Michele Santoro (foto LaPresse/Jurek Kralkowski)

Anche l'album di famiglia di Repubblica è pieno delle foto dei grillini

Guido Vitiello

Scegliere tra le rose dei moralisti e le spine della moralità, diceva Marco Pannella 

Muoia Sansone con tutti i filibustieri, diceva Nino Frassica. E in effetti, chi ha spalancato i mari alle flottiglie corsare, soffiando nelle loro vele fino a che hanno abbordato i vascelli del Parlamento, chi ha offerto il suo aiuto mercenario alle più spericolate incursioni di pirateria giudiziaria al punto da ritrovarsi con lo Stato di diritto impiccato sul pennone della nave, dovrebbe quanto meno riconoscere la parte avuta nell’impresa. Niente da fare, invece: fanno di tutto per cavarti di bocca la vecchia battuta di Guerrazzi su Giuseppe Giusti, che “con braccia di Sansone scosse il luttuoso edifizio della odierna società, e poi ebbe paura dei calcinacci che cascavano”.

    

A tanti vorrei dedicarla. A Michele Santoro, che si è spaventato dei calcinacci sentendo arrivare sul palazzo lo scossone del referendum costituzionale, e che pure ne aveva strattonato le colonne portanti ogni settimana per un quarto di secolo; a Luciano Violante, che ha voltato le spalle a certi suoi amici filibustieri del diritto senza raccontar nulla delle piratesche imprese; a Ezio Mauro, il cui giornale ha creato in vitro l’homunculus Travaglio fino a farne un gigante, salvo scoprire dalla sera alla mattina che il suo stile ormai egemonico veniva dritto dal “Borghese degli anni più torvi”. E a cento altri ancora, tra cui naturalmente il fondatore Eugenio Scalfari. Anzi, per lui farei qualcosa di meglio. Mi metterei una parrucca bianca da Rossana Rossanda, gli offrirei un tè con pasticcini e lo inviterei sul divano a sfogliare l’album di famiglia dello sfascismo grillino – da quella copertina dell’Espresso delle prime settimane di Mani pulite, con un Beppe Grillo urlante e il titolo “Non ci resta che l’insulto”, al video di Gianroberto Casaleggio che invitava la piazza a scandire “Ber-lin-guer, Ber-lin-guer!” in nome della questione morale.

  

Insomma, tra le ostetriche, le nutrici e i precettori del mostriciattolo grillino manca ancora un Epimeteo, il fratello pasticcione di Prometeo che si pentiva, sia pure tardi e inutilmente, dei suoi sconquassi. Ma chi tenta di estorcere ammissioni di colpa ottiene di solito l’effetto contrario, e il meglio che può aspettarsi è l’Amaca di Michele Serra dell’altro ieri dove si diceva che la sinistra moralista riconoscerà la sua pagliuzza quando la destra immoralista vedrà la propria trave. Eppure, ripicche puerili a parte, una certa riluttanza alle assunzioni di responsabilità è nella natura di quel “moralismo” (parola forse impropria) di cui Repubblica è stata la scuola. Che non è, come si pensa, la pretesa di sottomettere la politica alla morale; è, al contrario, il completo, quotidiano asservimento dell’etica al tatticismo politico – e in questo si riflette nella “destra immoralista” come in una goccia d’acqua. E’ un libertinismo tetro, in cui non scorre la linfa della vita morale autentica, ossia tragica. Grillo, Travaglio o Davigo ne sono la caricatura espressionista, ma basta percorrere a ritroso l’album di famiglia di Repubblica per ritrovare i loro lineamenti in antenati meno sgraziati. E mentre i calcinacci ci sommergono e Sansone fa il finto tonto, ripenso a una lettera aperta che Marco Pannella, nel 1979, scrisse a uno dei venerati maestri di Repubblica, futuro autore di un “Elogio del moralismo” e candidato alle Quirinarie dai grillini, che scandiranno nelle piazze il suo cognome trisillabo proprio come “o-ne-stà” e “Ber-lin-guer”. Diceva, il caro grande Marco, che si tratta di scegliere “fra le rose dei moralisti e le spine della moralità”.