Eugenio Scalfari e Matteo Renzi (foto LaPresse)

Eugenio Scalfari e la differenza tra società del ricatto e del riscatto

Claudio Cerasa

L’educazione scalfariana ha prodotto il grillismo e per questo non si sposa con il Foglio. Una risposta al fondatore di Rep.

In un passaggio del suo editoriale domenicale, Eugenio Scalfari ha dedicato al nostro giornale alcune righe sulle quali, con un sorriso, vale la pena ritornare un istante. Il fondatore di Repubblica, non capacitandosi forse del perché il leader del più importante partito italiano (Matteo Renzi) abbia deciso di rilasciare proprio al Foglio la sua prima intervista da neo segretario, ci rimprovera di non avere “una rappresentanza culturale di assoluto rilievo” e sostiene che il Foglio è sì un giornale d’élite, come lo fu anche il meraviglioso Mondo di Mario Pannunzio (che però durò solo 17 anni, il Foglio è già all’anno numero 22), ma che a differenza del Mondo il nostro giornale non avrebbe una chiara “visione culturale della società italiana”. Gulp! Lo spunto di Scalfari è interessante non tanto per il giudizio che dà del Foglio (ci arriviamo alla fine) quanto perché le parole del fondatore di Rep. tradiscono un tic molto preciso del pensiero progressista (e azionista) che merita di essere messo in luce.

 

Scalfari, da portavoce inconsapevole di un’Italia immobile ed eternamente intrappolata nelle sue ideologie novecentesche, considera da sempre ciò che proviene dal mondo conservatore come una sorta di “non cultura”. E questo approccio, schietto e sincero, è importante da perimetrare perché fotografa perfettamente il grande paradosso di fronte al quale si trova oggi la sinistra scalfariana: per una vita ha considerato una “non cultura” tutto ciò che proveniva dal mondo conservatore (“dalla destra”) e per una vita ha rinunciato dunque a confrontarsi sul merito con i temi (culturali e politici) messi in campo dagli avversari. La destra dice una cosa? Non importa che cosa sia quella cosa, perché quella cosa, se la dice la destra non può che essere sbagliata. Punto. Anni e anni di educazione siberian-scalfariana hanno prodotto un’opposizione certamente compatta e certamente intransigente e certamente portatrice di “una rappresentanza culturale di assoluto rilievo”. Ma hanno avuto anche un altro effetto devastante, di assoluto rilievo, che in fondo coincide con il vero dramma che vive oggi un pezzo importante dalla sinistra italiana. E dopo aver letto in sequenza l’intervista a Matteo Renzi (sabato) e l’intervista a Berlusconi (ieri) anche Scalfari lo avrà notato: come diavolo è possibile che su molti temi (economia, giustizia, Europa, crescita, populismo) il leader del Pd (che Scalfari dice di stimare) oggi la pensi allo stesso modo del leader di Forza Italia? E come diavolo è possibile che nonostante questa apparente contraddizione il Pd sia il partito progressista più forte d’Europa e al momento anche d’Italia?

 

Il fondatore di Repubblica forse non lo ammetterà mai (e se vuole ammetterlo siamo qui) ma la risposta purtroppo è chiara ed è anche questa di assoluto rilievo culturale. Sintetizziamo al massimo (e poi torniamo al Foglio). Fino a quando la sinistra italiana ha seguito l’agenda Scalfari, la sinistra italiana è stata condannata all’irrilevanza. Nel momento in cui la sinistra italiana ha cominciato (con Renzi) a non seguire più l’agenda Scalfari (non regalando più alla destra i temi di buonsenso di cui la destra si era impadronita) ha cominciato a uscire dall’irrilevanza, è diventata maggioranza del paese e per la prima volta nella sua storia (2014) ha portato a Palazzo Chigi il segretario di un partito progressista. Il problema però, a proposito di “visione culturale della società italiana”, è che la visione di cui Scalfari è portavoce (e che il fondatore di Rep. ha difeso per una vita) non è solo una visione che ha impoverito per anni la sinistra italiana ma è anche una visione che ha alimentato un mostro culturale (come altro chiamarlo, caro direttore?) che ieri si sarebbe chiamato semplicemente “moralismo” e che oggi invece ci tocca chiamare per quello che è: “grillismo”. E su questo passaggio vale la pena spendere ancora qualche riga e mettere Scalfari (e la sinistra che rappresenta) di fronte a uno specchio. 

 

È inutile girarci attorno ed è inutile cercare perifrasi. La sinistra alla Scalfari – quella cioè che considera come moralmente inferiore tutto ciò che non fa parte del pensiero progressista – non è solo una sinistra che ha incatenato il pensiero progressista rendendolo irrilevante per una vita, ma è anche una sinistra che ha disseminato in giro per l’Italia un concime che oggi ha prodotto i suoi frutti e che in un certo modo costituisce il terreno che ingrossa i fusti del populismo italiano. Scalfari oggi stenterà a crederci, ma il grillismo è un derivato limpido e chiaro della sinistra scalfariana. Di una sinistra, per capirci, che ha scelto per una vita di trasformare la questione morale nella sua stella polare. Di una sinistra, per intenderci, che ha scelto per una vita di delegare ai magistrati il compito di moralizzare un paese. Di una sinistra, per continuare, che ha scelto di far diventare la parola moralismo e la parola giustizialismo facce della stessa medaglia e che, per una vita, si è specializzata in una serie di attività culturali, che queste sì hanno avuto una rappresentanza culturale di assoluto rilievo, che si sono contraddistinte per avere una serie di caratteristiche chiare. La tendenza a utilizzare la magistratura per conseguire obiettivi politici. La tendenza a risolvere per via giudiziaria la complessità dei problemi della politica. La tendenza ad attribuire un aprioristico favore ai magistrati dell’accusa. La tendenza a far proprie tutte le battaglie combattute dalla magistratura. La tendenza a considerare i magistrati figure sempre più mitizzate, come giustizieri senza macchia e senza paura, custodi dei valori etici di una società civile, idealizzata e contrapposta a una politica corrotta. La tendenza ad alimentare la corsa a chi era il più puro tra i più puri. La tendenza, come disse Enrico Berlinguer nella famosa intervista concessa a Eugenio Scalfari il 28 luglio del 1981, a issare sul galeone della sinistra la bandiera della questione morale, “diventata la questione politica prima ed essenziale perché dalla sua soluzione dipende la ripresa di fiducia nelle istituzioni, la effettiva governabilità del paese e la tenuta del regime democratico”.

 

L’educazione siberiana scalfariana ha avuto involontariamente il “merito” di asfaltare la stessa strada che oggi stanno percorrendo i grandi (e veri) demagoghi italiani ed è una strada dove per viaggiare veloci si utilizzano gli stessi mezzi spicci consigliati per una vita dalla sinistra scalfariana: la presunzione di innocenza è un optional; il moralismo è il giusto surrogato del riformismo; le battaglie politiche è legittimo combatterle anche per via giudiziaria; la gogna è uno strumento accettabile per far fuori un avversario politico; e inevitabilmente il rispetto della pubblica morale diventa il criterio principale con cui valutare i soggetti della politica. Un tempo, l’approccio scalfariano, poi ereditato da Ezio Mauro, oggi rinnegato da Mario Calabresi, coincideva con l’Italia anti berlusconiana dei Palasharp. Quell’Italia però non ha prodotto un’alternativa al centrodestra (a meno che non si consideri il movimento 5 stelle o Articolo 1 una grande alternativa di governo) ma paradossalmente ha prodotto un’Italia che non aveva altra alternativa se non quella di scaricare l’agenda Scalfari – il moralismo come strumento di lotta politica – per provare a rimettere insieme i cocci di una sinistra grillizzata prima ancora dell’arrivo in politica di Beppe Grillo. Tutto questo per dire che non ci stupisce – e anzi ci lusinga – che Scalfari abbia da ridire su ciò che rappresenta il nostro magnifico giornale. E non ci stupisce perché quello che prova a fare il Foglio, nel suo piccolo, è l’esatto opposto di quello che ha provato a fare Scalfari per una vita: dimostrare cioè che i partiti (di centrodestra e di centrosinistra) non hanno bisogno di sfidarsi a colpi di moralismo, hanno semplicemente bisogno di sfidarsi a colpi di riformismo. La società del ricatto ha prodotto il grillismo e la retorica dell’onestà. La società del riscatto può produrre un’alternativa all’unica Italia che il nostro amico Scalfari ha legittimato per molti anni: l’Italia del moralismo e l’Italia del governo dei giudici. Un abbraccio.

  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.