Contro la politica del pauperismo
La retorica anti vitalizio è la spia del nulla cosmico candidato al governo
La cuoca che governa lo Stato era un principio già noto in tempi leninisti, poi decenni di società civile all’assalto del cielo (che sa essere più incivile della vituperata comunità politica) hanno trasformato l’arte di governo in un reality show per improvvisati. Si era cominciato negli anni Novanta, con l’idea che i magistrati potessero colmare le mancanze, che pure c’erano state, e parecchie, della classe dirigente, giungendo all’abolizione nel 1993 dell’ampia immunità parlamentare. Il dibattito attuale sul “vitalizio” – un vero capolavoro di agenda setting da parte del M5s – non è neanche un punto d’arrivo, ma una fase di passaggio dello spirito dei tempi gentista. L’importante, per il gentismo, è procedere per sottrazione; non aspira al miglioramento delle generali condizioni di vita, ma pretende il livellamento collettivo verso il basso. Sicché non deve esserci alcuna differenza fra il passante e il politico, anzi!, è meglio se il passante entra direttamente nel Palazzo. Il M5s ne è la rappresentazione; è l’apoteosi dell’incapacità portata in Parlamento, del nulla cosmico trasformato in un saggio della repubblica. Il disagio dunque va collettivizzato: il politico deve essere vicino al cittadino perché uniti entrambi nella povertà. E’ la decrescita (in)felice applicata alla politica.
Michele Emiliano vuole togliere lo stipendio ai politici, il M5s vuole eliminare i vitalizi, giocando con le parole e con il sensazionalismo degli anti casta, facendo finta di non sapere che dal 30 gennaio 2012 esiste l’assegno pensionistico, calcolato con il sistema contributivo, che i parlamentari ricevono alla fine del mandato e non prima di aver compiuto il 65esimo anno di età. Al gentista, è chiaro, le élite politiche non piacciono. Non si accontenta di portare solo la cuoca al governo, ma anche i cosiddetti specialisti, gli esperti, nella convinzione che per fare politica o si è gente della strada o fisici nucleari che mai hanno visto una delibera o un’ordinanza in vita loro. “La convinzione che i politici non fossero degni di fiducia – scrive Matthew Flinders nel suo ‘In difesa della politica’ (il Mulino) – e che si potesse in qualche modo ‘togliere la politica’ dalle loro mani ha determinato un mutamento della natura della governance moderna. Si tratta di un mutamento basato sul trasferimento di potere dagli eletti ai non eletti (ad esempio, giudici, economisti, scienziati, banchieri, contabili, tecnocrati, guardiani dell’etica, ecc.) ma che, per qualche oscuro motivo, sono considerati più legittimi e attendibili dei politici eletti”.
Naturalmente, per il gentista è essenziale fare politica per quattro soldi, anche se in questo modo si aprono le porte al notabilato, a quelli che possono far politica perché già ricchi e quindi se lo possono permettere. Il risultato è che quella legittimità viene trasferita altrove, ad altri organismi, magari – aggiungiamo con il politologo Colin Crouch, autore di Postdemocrazia (Laterza) – in un orizzonte post-democratico nel quale la sfera economico-finanziaria è prevalente su quella dei governi: “Nelle condizioni in cui la postdemocrazia cede sempre maggior potere alle lobby economiche, è scarsa la speranza di dare priorità a forti politiche egualitarie che mirino alla redistribuzione del potere e della ricchezza o che mettano limiti agli interessi più potenti”. Allevare una classe dirigente forgiata dal pauperismo non scaccerà chi vede nella politica un modo per arricchirsi, ma anzi aprirà le porte proprio a quei famigerati “poteri forti” – con cui i populisti fanno gargarismi mattutini – ben felici di prendere il posto delle élite. E’ la grande illusione della democrazia diretta. Ci si illude sia diretta dal basso, ma in realtà è telecomandata dall’alto. E quando il nulla cosmico arriva in Parlamento, usare il telecomando è persino più facile.
Equilibri istituzionali