Un paese è competitivo se può contare su processi decisionali rapidi. La riforma è un treno che ripasserà chissà quando

Annalisa Chirico
Le ragioni del perché No sono conosciute e sono chiare e riguardano più il soggetto della riforma (Renzi) che l’oggetto della riforma (la Costituzione). Quelle del perché Sì sono meno evidenti, meno raccontate e per questo più interessanti. Cosa c’entra la generazione dei trenta-quarantenni con la riforma costituzionale? Girotondo fogliante

Il tempo passa, pure Berlusconi & D’Alema invecchiano. Il Cav., superata la boa degli ottanta, veste i panni del “patriarca” tra figli e nipoti, vola negli States e saluti a tutti. D’Alema produce vino umbro, presenzia alle sagre di paese, la barca a vela è un lontano ricordo. Il tempo passa, e non fa sconti. Quando Bettino Craxi lancia sulle colonne dell’Avanti il progetto di “Grande Riforma”, è il 25 settembre 1979. Sono trascorsi quasi quarant’anni da allora. Com’è noto, quel tentativo si rivela “un inutile abbaiare alla luna”. Perché in Italia tutti abbaiano, purché nessuno morda. Io non sono ancora nata, anzi non sono neppure nei piani dei miei genitori, quando nel 1982 va in scena il primissimo tentativo di riformare il ping-pong, tutto italiano, tra le due Camere uguali uguali. Poi un giorno vengo al mondo, sotto il segno del Cancro, e la commissione Bozzi, la seconda, è appena fallita. Da allora, lungo i tre decenni della mia esistenza, ho assistito a una parabola stupefacente, quella del Riformatore incapace di riformare. Che si chiami Berlusconi, Prodi o Zalone, che la commissione la presieda De Mita, Iotti o D’Alema, il risultato non cambia: infinite promesse e zero riforme. Il sipario su “Non è la Rai” è calato da un pezzo, Ambra Angiolini ha mollato Renga, pure i Brangelina rompono l’idillio dell’amore eterno.

 

L’imperatore giapponese intende abdicare, e noi ci ritroviamo con due papi e due presidenti della Repubblica, melius abundare. Nelle edicole “Cioè”, la rivista cult anni 80, è fuori commercio (le lettrici la inondavano di domande meravigliose: “Se il mio ragazzo mi tiene la mano per strada, resto incinta?”), Dylan ha lasciato Brenda per poi lasciare pure Kelly, e l’ex brunetta di Beverly Hills oggi si mostra su Instagram senza capelli a causa della chemioterapia. Sprint, la polvere di malto e orzo, ha perso la battaglia contro il Nesquik, Google ha cambiato per sempre la nostra vita, l’enciclopedia è sepolta in soffitta, l’iPod è destinato all’ennesimo necrologio. Insomma, il mondo attorno a noi cambia. L’Italia resta immobile. E’ tutta colpa della Costituzione? Certo che no. Ma la resistenza culturale al cambiamento, questa sì, è colpa nostra, è la malattia da cui dobbiamo guarire. Qualcuno vorrebbe che nel mondo di AirBnb e delle prenotazioni telematiche worldwide mantenessimo un ufficio turistico per ognuna delle venti regioni in ogni paese turisticamente rilevante. E allora perché non tornare alle carrozze? Non sarà la riforma più bella del mondo, per qualcuno il dramma è che i consiglieri regionali approdino a Palazzo Madama, io avrei voluto la sfiducia costruttiva che non c’è, più poteri al premier che non ci sono. Ma intanto abbiamo un testo, frutto di un compromesso, votato dal Parlamento (anche da chi adesso grida al “ducetto”).

 

Suvvia, deponete le armi. Delle imperfezioni della Costituzione-più-bella-del-mondo avevano contezza, per primi, i Padri costituenti. Meuccio Ruini prometteva: “Noi stessi rimedieremo alle lacune e ai difetti che sono inevitabili”. Per Gaetano Salvemini, “i soli articoli che meriterebbero di essere approvati sono quelli che rendono possibile emendare, prima o poi, quel mostro di bestialità”. Non bisogna essere dotti costituzionalisti con la erre moscia per comprendere che la navette, i testi di legge che rimbalzano tra Camera e Senato anche solo per un cambio di sillaba, è fonte di lungaggini incompatibili con la contemporaneità. Un paese è competitivo se può contare su processi decisionali rapidi. La riforma costituzionale è il treno del cambiamento: vogliamo lasciarcelo sfuggire? In caso di fallimento, il day after non sarà quello dell’Apocalisse, andremo comunque in ufficio, la sera guarderemo un documentario su Netflix, e proseguiremo a invecchiare, coccolati dalla rassicurante certezza di vivere in un paese in cui nulla cambia. A parte le rughe.

 

Annalisa Chirico, giornalista, classe 1986

 

 

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