Il direttore del Corriere della Sera Luciano Fontana (foto LaPresse)

Cosa votano i direttori al referendum?

Maurizio Stefanini
Cosa pensano i direttori dei più autorevoli media italiani del referendum? Molti nì, qualche no, pochi sì. Giornali, telegiornali, siti. Mini girotondo

Roma. Cosa pensano i direttori dei più autorevoli media italiani del referendum? Ad agosto la gran parte di loro è irreperibile, ma per il Corriere della Sera Luciano Fontana riesce invece a prendere la telefonata, pur al primo giorno di ferie e in scalata. “Chi ha un ruolo deve rispondere!”, dice. Citando un suo editoriale, dice che ci sono sia aspetti positivi, “soprattutto per quello che riguarda la fine del bicameralismo e la diversa configurazione del rapporto stato-regioni”; sia “scelte non tanto condivisibili, per quanto riguarda la definizione del Senato, la scelta dei senatori e la sua elettività indiretta”. Insomma, il giudizio personale è “misto”. Ma per Fontana il compito del Corriere “non è tanto schierarci, ma dare ai lettori tutta la possibilità per conoscere su cosa si va a votare e per farlo liberamente e con indipendenza. Partendo dal presupposto che deve essere un referendum sul merito, perché se diventa un referendum su Renzi corre il rischio di far aggregare una Santa Alleanza il cui unico scopo è mettere in difficoltà e far cadere il presidente del Consiglio, e non decidere se questa riforma costituzionale è una riforma positiva per il paese”.

 

Sfumata è anche la posizione del direttore della Stampa Maurizio Molinari. “Il voto personale è segreto, la Stampa ha dato e darà voce a tutte le posizioni nel dibattito sul referendum costituzionale. La mia opinione è che si tratta di un passaggio, normativo e politico, le cui ripercussioni possono essere significative, in Italia e in Europa. L’interrogativo che conta di più riguarda l’approccio degli elettori al referendum ovvero se voteranno sulla base del contenuto del quesito oppure spinti da motivazioni diverse. Sotto questo aspetto sarà un banco di prova perché le recenti elezioni svoltesi in Europa, dalle politiche in Austria al referendum sulla Brexit in Gran Bretagna fino alle nostre amministrative, hanno evidenziato l’esistenza di un movimento di protesta che si esprime in forme diverse a prescindere dal contenuto del voto. Se gli italiani voteranno al referendum sulla base dei quesiti il vento di protesta subirà una sconfitta, viceversa coglierà una nuova importante affermazione innescando conseguenze difficili da prevedere”. Virman Cusenza, direttore del Messaggero, è invece più esplicito e dice: “Voterò sì, con diversi ma, non mi convincono molti punti della riforma, ma la ritengo un bicchiere mezzo pieno rispetto al vuoto dell’esistente”.

 

Si chiama fuori invece Enrico Mentana, direttore del Tg La7. “Notoriamente, io non voto mai. E poi a settembre mi appresto a fare una trasmissione sul sì o sul no: come arbitro, non è che posso fare il tifo per uno dei due schieramenti!”. L’importanza che i media spieghino le ragioni dei sì come dei no è sottolineata anche da Clemente Mimun, del Tg5, che fatta però la premessa dice che a lui personalmente la riforma non piace. “Lascia troppo pochi contrappesi, e io i parlamentari li voglio eleggere, ogni tanto”. Stessa impostazione di Mario Giordano, del Tg4. “Anche mettendo da parte la mia radicale antipatia per Renzi, questa riforma mi sembra comunque un pastrocchio”. E anche di Giorgio Mulè, di Panorama: “Voterò no dopo aver letto l’articolo 70, che sfido qualsiasi esperto in enigmistica a decifrare. Non ci si capisce niente, è scritto col culo!”.

 

Asprezze di linguaggio a parte, è impressionante la concordanza di analisi tra direttori storicamente collegati al berlusconismo e un principe dell’antiberlusconismo come Marco Travaglio, che alla battaglia costituzionale ha dedicato un libro ora in testa alle classifiche e uno spettacolo. “Sul metodo, un Parlamento eletto con una legge elettorale illegittima dovrebbe occuparsi di ordinaria amministrazione e non di riforme costituzionali. Sul merito, io sono favorevolissimo a differenziare i poteri tra Camera e Senato, per esempio sul modello americano. Ma negli Stati Uniti il Senato è comunque tutto eletto dal popolo, mentre qui è nominato: 5 senatori dal capo dello Stato e 95 dai Consigli regionali, che a mio modesto parere sono forse la classe politica più malfamata che esiste in Italia. Per quale motivo a questi senatori non eletti viene lasciata una funzione legislativa? Per quale motivo gli si dà l’immunità parlamentare, che è un istituto nato per gli eletti in Parlamento? L’articolo 70, che è quello dove si disciplinano i sistemi di approvazione delle diverse leggi, è poi una cosa incomprensibile, peggio di un regolamento condominiale. I giuristi si stanno spaccando la testa per capire se i sistemi di approvazione delle leggi sono 7, 10, 12. Ciò, naturalmente, innescherà conflitti di ogni genere”.

 

Invece, annuncia un convinto sì Luca Sofri, del Post. “Sì, ci sono complicazioni e controindicazioni. Ma in questo momento mi sembra più importante provare a cambiare le cose piuttosto che garantire la sopravvivenza di come sono state finora”.