Virginia Raggi al Campidoglio (foto LaPresse)

Il linguaggio della menzogna a nudo

Claudio Cerasa
Il garantismo non è più gargarismo. Non basta una telefonata a sputtanare. E poi altre delizie. A Roma l’indignato collettivo mette in scena lo spettacolo delizioso della melma che diventa cioccolato. Da Di Maio a Travaglio. Slurp!

Governare, che dolor! Il dottor Cal Lightman è il personaggio di una serie televisiva di successo che si chiama “Lie To Me” e che ci auguriamo venga vista presto da una categoria di intellettuali, molto coccolata da Marco Travaglio, Luigi Di Maio e Alessandro Di Battista, che ultimamente mostra segnali di stordimento: l’indignato collettivo. Il protagonista dello sceneggiato, interpretato da Tim Roth, è un esperto di prossemica e di cinesica, una disciplina che studia la mimica facciale e i movimenti involontari del corpo, e applica la psicologia delle emozioni partendo da un presupposto importante: le mimiche facciali, il tono vocale e il linguaggio corporeo possono tradire la menzogna e per individuare le bugie è sufficiente osservare con attenzione il linguaggio del corpo. Un lobo dell’orecchio strofinato può nascondere imbarazzo. Un anello fatto girare rapidamente sul dito di una mano può nascondere difficoltà. Una smorfia sulla faccia può significare una dissonanza tra ciò che si pensa e ciò che si dice. E così via. Con lo stesso metodo adottato da Lightman per decodificare la presenza di un punto di fragilità nel racconto di una storia, esiste un metodo altrettanto preciso per individuare la presenza di fragilità, o se volete di menzogne, nei racconti dell’indignato collettivo.

 

In questo caso, il metodo riguarda il lessico e non il corpo ma il dottor Cal Lightman, pur in una cornice diversa, non avrebbe difficoltà a individuare alcune terminologie particolari che negli ultimi anni sono state utilizzate dall’indignato collettivo come una clava per abbattere i propri avversari. Le espressioni sono tre: “Spunta”, “Indagato”, “Legato a”. Grazie ad anni di lento e progressivo affinamento della gioiosa macchina della melma, l’indignato collettivo ci ha insegnato alcune verità assolute che suonano più o meno così. Una persona che finisce nel registro degli indagati è un furfante da condannare fino a prova contraria. Se il furfante da condannare fino a prova contraria è uno schifoso politico la condanna preventiva deve essere spietata e senza scrupoli, perché quel politico, essendo un politico, la casta!, non può che essere colpevole, a prescindere da quale sarà l’iter processuale. Se poi il furfante da condannare non è ancora stato indagato è necessario utilizzare ogni mezzo per dimostrare la propria ipotesi d’accusa. E in questa logica, cruciale per difendere i valori della democrazia, è doveroso trovare un qualche link che unisca il nostro furfante da condannare fino a prova contraria (Tizio) a un qualche personaggio già precedentemente sputtanato (Caio). C’è una foto tra Tizio e Caio? E allora Tizio non potrà che essere indissolubilmente “legato a” Caio. C’è un’intercettazione in cui Caio parla di Tizio anche se Tizio non è indagato? Non importa: se “spunta” il nome di Tizio in un’intercettazione, in una qualsiasi intercettazione, Tizio è finito, sputtanato, compromesso, kaputt. E se provi a dire che un indagato è innocente fino a prova contraria, tu non sei un garantista: sei una persona che dubitando della buona fede dei magistrati fa il gioco di chi vuole i giudici morti, come per esempio i mafiosi e i camorristi. E se provi a dire che non basta un’intercettazione per condannare una persona che non è neppure indagata tu non sei un garantista: sei un nemico dell’umanità che vuole mettere il bavaglio alla libera stampa. E se provi a dire che non basta una foto tra un politico e un uomo sospettato di essere un criminale per decretare la condanna di quel politico, non sei un garantista: sei uno schifoso servo del potere a servizio della casta e probabilmente pagato dalla mafia. La gioiosa macchina della melma funziona come un’applicazione collaudata, ormai, e a seconda della necessità chiunque può schiacciare il pulsante “fango” per aprire la doccia di letame. E una volta che si sceglie di aprire la doccia, l’indignato collettivo non ha più freni. Per infangare il proprio obiettivo ogni mezzo è lecito. Dai difetti personali al nome storpiato. Non conta più nulla: l’importante è alimentare la macchina dell’indignazione.

 

Il meccanismo però funziona solo a condizione che l’indignazione sia perenne, senza sosta, senza sconti, senza distinguo, senza pudore, e se solo per un attimo l’indignazione lascia il posto alla riflessione, e se solo per un attimo cioè si prova a dimostrare che la melma non è melma ma è squisitissima cioccolata, succede che i dottor Cal Lightman si moltiplicano e che il linguaggio della menzogna diventa visibile a tutti, non solo a chi si è sempre rifiutato di utilizzare quel linguaggio.

 


Virginia Raggi con l'assessore Paola Muraro (foto LaPresse)


 

Il favoloso palcoscenico sul quale l’indignato collettivo ha scelto di mettere in mostra lo spettacolo della melma che diventa cioccolata è il comune di Roma – con le peripezie della sindaca Virginia Raggi e dell’assessore all’Ambiente Paola Muraro e i “contatti” di quest’ultima con Salvatore Buzzi – e il dottor Lightman, anche qui, non avrebbe difficoltà a individuare la presenza di fragilità nella storia raccontata dall’indignato collettivo. L’assessore che “spunta” nelle telefonate con il diavolo in persona non va condannato ma va contestualizzato (“Più leggiamo giornaloni e giornalini e meno capiamo dove stia, anzi dove ‘spunti’, il conflitto d’interessi dell’assessora all’Ambiente Paola Muraro”, ha scritto giustamente Marco Travaglio il 3 agosto 2016). L’attivismo delle procure diventa improvvisamente ad orologeria (“Era un bel po’ che non si vedeva tanta pressione su una Procura come quella che sta esercitando il Pd con tv e giornali al seguito sui pm di Roma”, ha scritto magnificamente Marco Travaglio il 7 agosto 2016). Le indagini delle procure non sono più condanne fino a prova contraria ma sono atti da valutare nel loro insieme e sui quali non si può esprimere una valutazione affrettata (“Se un pm apre un’indagine, iscrivendo una notizia di reato e un indagato, ‘avvisando’ poi quest’ultimo di un accertamento o convocandolo per un interrogatorio, di per sé non significa nulla. Solo che si sta verificando la fondatezza di un sospetto, un indizio, una denuncia”, ha scritto ancora egregiamente Marco Travaglio il 7 agosto 2016). E’ una conversione apprezzabile, interessante, immaginiamo frutto di una svolta spirituale molto profonda maturata in qualche deliziosa colazione con Massimo Ciancimino. Chiediamo solo però ai Di Maio e ai Di Battista e ai Travaglio di non esagerare, di non essere troppo severi con i giornali manettari, di essere clementi con quei colleghi giornalisti che non sono stati ancora illuminati dalla luce di Madonna garantismo e di non ridimensionare soprattutto un personaggio chiave di Mafia Capitale come Salvatore Buzzi. Non vorrete mica piazzare il bavaglio alla libera stampa mettendo in pericolo le vite di tutti i magistrati italiani dicendo che una telefonata con un indagato non è un reato, che non basta essere “legati a qualcuno” per essere compromessi con quel qualcuno e che non è sufficiente essere in un’intercettazione per essere condannati a vita, no? Benvenuti nel club dei garantisti, amici del Cinque stelle (per Ciancimino vi facciamo sapere noi con calma). Governare, che dolor!

  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.