Come far funzionare la democrazia senza cedere al “popolo bue”

Maurizio Crippa
Nel mondo iper-complesso, a che serve votare? Bene che vada, crescono due malesseri opposti. Si vota su ciò che non si sa, vanificando a una regola aurea per la democrazia, “conoscere per deliberare”. Oppure si vota ma poi decidono altri, e  questo genera populismo e determina disaffezione.

Nel 1941 le democrazie nel mondo erano undici. Secondo il Democracy index dell’Economist nel 2014 erano 76, mettendoci anche i “regimi ibridi” si arriva a 115. Senza scomodare Churchill, si può dire la democrazia funzionicchia. Tralasciando per carità di patria Roberto Saviano, dopo la Brexit (e in vista delle elezioni in Francia o del referendum in Italia) sono però molti gli intellettuali di qualche caratura ad aver avanzato dubbi su uno strumento principe della democrazia, il referendum: da Bernard-Henri Lévi a Stefano Rodotà. Può darsi siano davvero le élite arroganti messe sotto accusa da Pierluigi Battista, “queste oligarchie del pensiero sempre più inascoltate, asserragliate in una fortezza per difendersi dall’assedio dei nuovi barbari muniti di quelle subdole armi che sono le schede elettorali”. Ma è lecito porsi una domanda in più, e chiedersi se invece, in quelle posizioni, non ci sia al contrario un eccesso di reticenza.

 

In realtà la loro critica dovrebbe essere più radicale: in un mondo iper-connesso, globalizzato, governato da istituzioni sovranazionali (la Bce, il Fmi, la Nato) e da istituzioni finanziarie fuori dal controllo dei cittadini (banche, mercati) non è la democrazia stessa a essere inutile, dannosa, da limitare? La domanda che nessun politico o politologo oserebbe fare, al massimo se la permette qualche corsivista in vena di scandalo, è pero quella che molti si fanno al bar, o in salotto: ma perché a decidere la Brexit deve essere un farmer del Norfolk, che nemmeno sa di che si tratta? Perché il voto dei non-informati vale uno, come il mio? Il tema esiste, non è banale, mai come ora fa capolino. Il riassunto di Luisella Costamagna sul Fatto può essere preso in blocco: “La Brexit è stata illuminante anche per capire la concezione della democrazia di molti nostri rappresentanti istituzionali e commentatori. ‘Ho paura che la democrazia si possa perdere se usata male’ (Mario Monti). ‘Elettori disinformati producono disastri epocali. Per votare servirebbe un esame di cittadinanza’ (Giorgio Gori). ‘I limiti della democrazia diretta: il popolo è sovrano ma non necessariamente consapevole e sapiente’ (Pierluigi Castagnetti), ‘Certo la democrazia diretta non è infallibile’ (Mario Lavia, L’Unità). ‘Necessità di allentare il vincolo che impone che il voto di un ottantenne valga come quello di un ventenne’ (Alessandro Rosina, Università Cattolica)”. E così via.

 

Idee forse solo oltraggiose. Ma pongono un tema che trascende il “populismo” inteso come generica somma di tutta la cattiva politica. Nel mondo iper-complesso, a che serve votare? Bene che vada, crescono due malesseri opposti. Si vota su ciò che non si sa, vanificando a una regola aurea per la democrazia, “conoscere per deliberare”. Oppure si vota ma poi decidono altri, e questo genera populismo e determina disaffezione. L’astensionismo è il dato più rilevante in tutti i paesi occidentali: nel 2012 negli Usa ha votato il 49 per cento dei cittadini; i giovani tra i 18 e i 24 anni sono quelli che hanno votato meno alle Europee del 2014. Meglio abdicare al cesarismo – elitario o populista – o alla tecnocrazia? Ma se non è così (se sono solo chiacchiere da bar o da élite spocchiose), come si può recuperare un minimo di funzionalità democratica? Tempo fa Michele Salvati sulla Lettura notava, “parafrasando titoli di buoni libri usciti da poco”, il profluvio di saggi dedicati alla crisi della democrazia: “causa persa”, “sfigurata”, “post-democrazia”. Agli apocalittici, ribatteva che la democrazia, equilibrio delicato, “è sempre in crisi”, e per funzionare ha bisogno di leadership forti, capaci di farsi comprendere e seguire.

 

Al Foglio oggi ribadisce il concetto, ma ammette che “non è per niente facile avere leadership così in una fase in cui il capitalismo, per chiamare le cose col loro nome, ha imposto cambiamenti radicali a tutte le nazioni avanzate. La democrazia regge bene dove c’è soddisfazione, ma il voto di pancia, di paura, può travolgere chiunque”. No panic, comunque. Lo scorso anno un dossier dell’Economist dedicato alla crisi della democrazia stilava un elenco di cause: la globalizzazione ha reso deboli le politiche nazionali, la pressione dei localismi al contrario è cresciuta, quella degli elettori non è più controllabile dai canali tradizionali di formazione delle opinioni. L’Economist auspicava tra i rimedi un mix fatto di chiarezza su obiettivi delimitati da parte dei governi (spesa, tasse, sicurezza) e di democrazia diretta, a base anche di referendum consultivi, su tutto ciò che è di interesse prossimo alla collettività. Per i politologi, bisogna innanzitutto “distinguere per ragionare”. Ad esempio: la nostra vituperata Costituzione, che vieta i referendum sui trattati internazionali, sbaglia? Forse no, perché a certi livelli la competenza deve passare alle tecnocrazie, e alla regola del voto deve sostituirsi la responsabilità di un decisore.

 

Esiste una democrazia rappresentativa: si va a votare per scegliere chi deciderà per me. E una deliberativa: si va a scegliere. Forse, prima di buttare il bambino democratico con l’acqua populista, va spiegato che nei sistemi complessi la democrazia rappresentativa può avere un valore maggiore che non il presunto “uno vale uno” della democrazia diretta. Si possono trovare rimedi, spiega Salvati citando proprio i limiti che già esistono: sui trattati internazionali, o per organi decisivi  per la vita democratica come la Corte costituzionale, per cui non si vota. “Ma arrivare a dire che va limitato il suffragio universale è impossibile. Meglio ricorrere a meccanismi che tutelino l’esercizio della democrazia ma facilitino il lavoro dei governi. Per fare il caso italiano, abbiamo perso l’occasione di introdurre la fiducia costruttiva e la possibilità del governo di tornare a elezioni in caso di voto si sfiducia, come avviene in Germania. Sono norme che non toccano i princìpi del suffragio, ma rafforzano il potere dell’élite che governa sul ‘popolo bue’”.

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  • Maurizio Crippa
  • "Maurizio Crippa, vicedirettore, è nato a Milano un 27 febbraio di rondini e primavera. Era il 1961. E’ cresciuto a Monza, la sua Heimat, ma da più di vent’anni è un orgoglioso milanese metropolitano. Ha fatto il liceo classico e si è laureato in Storia del cinema, il suo primo amore. Poi ci sono gli amori di una vita: l’Inter, la montagna, Jannacci e Neil Young. Lavora nella redazione di Milano e si occupa un po’ di tutto: di politica, quando può di cultura, quando vuole di chiesa. E’ felice di avere due grandi Papi, Francesco e Benedetto. Non ha scritto libri (“perché scrivere brutti libri nuovi quando ci sono ancora tanti libri vecchi belli da leggere?”, gli ha insegnato Sandro Fusina). Insegue da tempo il sogno di saper usare i social media, ma poi grazie a Dio si ravvede.

    E’ responsabile della pagina settimanale del Foglio GranMilano, scrive ogni giorno Contro Mastro Ciliegia sulla prima pagina. Ha una moglie, Emilia, e due figli, Giovanni e Francesco, che non sono più bambini"