Antonio Maccanico (Foto LaPresse)

Rileggere Maccanico per valutare laicamente la riforma della Costituzione

Franco Debenedetti

Adattare la nostra Carta al mutare delle circostanze è una necessità. Ne erano ben coscienti i padri costituenti che la sapevano cosa vivente. Altro che “giù le mani dalla Costituzione”! Il convegno su “Antonio Maccanico e il dibattito costituzionale” mette in luce come il nodo del Senato sia stato sempre il più animato e profondo.

Il convegno su “Antonio Maccanico e il dibattito costituzionale”, tenutosi a Roma la scorsa settimana, a dieci anni dalla pubblicazione della raccolta delle sue riflessioni sul tema, è stata l’occasione per illustrare continuità e differenze riguardo a problemi presenti nel dibattito politico fin dalla promulgazione della Carta nel 1948. Cresciuti di importanza col passare degli anni e del succedersi degli infruttuosi tentativi di risolverla, sono diventati dominanti con l’avvicinarsi di ottobre, quando il popolo italiano dovrà esprimersi sul progetto di riforma che Matteo Renzi è riuscito a far approvare dal Parlamento. C’è stato chi (Giorgio La Malfa) ha visto nell’iniziativa l’indebito tentativo di arruolare alla causa del “sì” chi ha combattuto altre battaglie; è stata invece l’occasione per riscoprire le radici delle questioni di cui si tratta.

 

Incominciando dalla liceità di adattare la Costituzione al mutare delle circostanze. Che è piuttosto una necessità: la nostra è una Carta vivente, proprio perché non è una Carta perfetta, ma perfettibile, come è del resto la democrazia. Ne erano ben coscienti Dossetti e Lazzati, Scoppola ed Elia; Piero Calamandrei, il 26 gennaio 1955, parlando agli studenti di Milano sosteneva che la nostra “non è una Costituzione immobile che abbia fissato un punto fermo, è una Costituzione che apre le vie verso l’avvenire”. Altro che “giù le mani dalla Costituzione”! La procedura dell’articolo 138, scrive Maccanico (scomparso nel 2013), fu concepita “per aggiornare alcuni punti, alcuni aspetti della nostra Carta fondamentale”.

 

Il Senato fu uno dei più grossi problemi per i padri costituenti. “Noi, dice Lazzati,  avevamo fatto serie obiezioni al bicameralismo… ma non passarono”. A causa del “bicameralismo e [di] un garantismo eccessivo”, Dossetti giudicava insufficienti o problematiche le soluzioni trovate per la forma di governo. Anche oggi c’è chi (quorum ego) avrebbe preferito che il Senato lo si fosse eliminato del tutto, e quindi critica composizione, compiti, sistemi elettorali previsti dalla nuova legge: sono gli stessi temi che avevano animato in Costituente un dibattito appassionato e profondo, quale non si ebbe per nessuna altra parte della Costituzione.

 

Il Senato non voterà più la fiducia: si elimina così in radice la possibilità che si formino maggioranze diverse alla Camera e al Senato, e si riducono i tempi del percorso parlamentare. E’ anche un contributo all’esigenza di conciliare una democrazia parlamentare con la stabilità e la funzionalità dei governi, una preoccupazione costante fin dalla Costituente. Gli azionisti (incontrando l’interesse perfino di Dossetti) sono per la repubblica presidenziale, a cui Maccanico si dice da sempre “nient’affatto contrario”. Croce denuncia i pericoli della “partitopatia”, Maranini della “partitocrazia”. E’ andata come sappiamo: dal 1996 al 2016 – scrive Luciano Violante sul Corriere della Sera – abbiamo avuto dodici governi e otto presidenti del Consiglio: l’instabilità dei nostri governi ha prodotto incertezza di linee politiche, paralisi delle amministrazioni, assenza di scelte strategiche, costose incertezze nei rapporti con la Ue”.

 

“Un sistema di democrazia parlamentare – scrive Maccanico – ha tre pilastri: la legge elettorale, la Costituzione, i regolamenti parlamentari”. Anche per lui il sistema elettorale che meglio si adatta alla nostra cultura politica è il maggioritario di collegio a doppio turno, magari, aggiungo io, con un diritto di tribuna e senza quel 25 per cento di proporzionale che di misura sopravvisse al referendum abrogativo. Oltretutto il confronto diretto del candidato con gli elettori del suo collegio è la migliore difesa contro il trasformismo e gli “inciuci”. Invece questa soluzione, pur largamente preferita a sinistra, ha dovuto essere sacrificata sull’altare del compromesso a favore di una che prevede le preferenze, un ballottaggio e un (modesto) premio di maggioranza. Dice ancora Maccanico: “Con il sistema maggioritario è giusto che il governo debba avere in Parlamento una maggiore influenza”.

 

Sarà un referendum o un plebiscito? Una questione non ipotizzabile all’epoca di Maccanico, e francamente pretestuosa oggi. “Se non iniziamo dalle riforme istituzionali e costituzionali – aveva detto Renzi il 24 febbraio 2014 chiedendo la fiducia al Senato – noi perdiamo la possibilità di essere considerati credibili. E vi diciamo, guardandovi negli occhi, che se dovessimo perdere, non cercheremmo alibi: se perderemo questa sfida, la colpa sarà soltanto mia”. Renzi ha preferito anticipare chi, nel caso, potrebbe ricordarglielo, esagerando un po’ nei toni. Prevedibili sarebbero invece i passaggi successivi alle dimissioni: nuove elezioni con l’Italicum alla Camera e il Consultellum al Senato, maggioranze diverse, un Parlamento ingovernabile. E i mercati non starebbero a guardare.