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Un confine per l'accoglienza c'è

Adriano Benedetti
L’impressione che ne emerge è che l’Europa sia giunta a un bivio. Idee per governare l’immigrazione senza cedere alla politica delle emozioni. Parola di diplomatico.

Il problema migratorio in Europa, tra gli avvenimenti succedutisi nel 2015 e quelli che si profilano per il 2016, ha assunto chiaramente un potenziale dirompente per gli equilibri interni a ogni paese membro e per l’intera costruzione dell’Unione europea. Inutile dire che gli effetti già si toccano con mano e altri si possono prevedere con ragionevole anticipo. L’impressione che ne emerge è che l’Europa sia giunta a un bivio: di cui forse non è ancora pienamente cosciente nella ricerca affannosa di soluzioni che si richiamino in qualche modo alla continuità con il passato. Avvolti nell’atmosfera, certamente commendevole, di ispirazione cristiana e laica, che punta a vedere nell’apertura e nell’accoglienza ai migranti un tassello irrinunciabile dell’identità dell’Europa, ci si è venuti dimenticando di almeno due princìpi fondamentali, che sono presenti a tutti i cultori di problematiche migratorie. Innanzitutto, l’irruzione improvvisa e cospicua di “estranei” è di natura tale da toccare corde sensibili nella psicologia degli abitanti di un paese, con reazioni spesso irrazionali, non facilmente reversibili.

 

In secondo luogo, quanto più i flussi migratori sono massicci e non nella misura quasi “omeopatica” richiesta dalla popolazione del paese ricevente, tanto più diminuisce la disponibilità ad accogliere e aumenta, per converso, l’ostilità che si traduce in difficoltà crescenti per l’integrazione. Se l’integrazione viene inceppata sin dall’inizio, l’intero esercizio dell’ingresso dei migranti rischia di arrecare danni duraturi, sia alle comunità straniere già insediatesi nel paese di accoglienza, sia agli equilibri politici interni al paese stesso. Nel contempo non si è data giusta considerazione, motivati come spesso si è dai valori dell’eguaglianza di tutti gli esseri umani e della non discriminazione su base etnica, religiosa e culturale, alla circostanza che alcuni gruppi di immigrati, per la loro fisionomia culturale in senso lato, presentano criticità non indifferenti ai fini di una piena, serena, costruttiva integrazione nella società di accoglienza. Il laicismo, imperante in occidente, è portato a sottovalutare la radicale importanza di paradigmi su cui culture diverse da quella europea si reggono, nella convinzione che tali paradigmi si dissolveranno gradualmente, ma inesorabilmente, al contatto con l’aria rarefatta del nostro “universo”, che consideriamo, senza poterlo dire, decisamente superiore.

 

Tutte le sopra indicate difficoltà sono sommariamente bollate come espressione di “populismo” deteriore. Credo sia una troppo facile “scappatoia” intellettuale e politica da parte di alcune élite, di fronte a problemi oggettivi e di non agevole soluzione: anche se è ovvio che di tali problematiche si impadroniscono con cinica disinvoltura formazioni politiche per fini elettorali e in vista di una possibile conquista del potere. La questione migratoria va collocata nel periodo storico che stiamo vivendo e quella attuale non è in alcun modo paragonabile con le ondate migratorie del passato. E’ possibile che l’opinione pubblica e le classi dirigenti non siano state finora in grado di completamente assimilare la portata dei cambiamenti che cominciano a essere sotto i nostri occhi. La straordinaria, prodigiosa “cavalcata” dell’Europa attraverso quattro secoli nel diffondere i propri valori, cultura, tecnologia, la propria sete di potere nel mondo è giunta al suo termine. Il periodo di dominazione “culturale” dell’Europa è finito: “Europe does not rule the waves any more”, applicando in negativo al nostro continente una frase suggestiva che contrassegnò l’apice della potenza britannica. Si potrebbe legittimamente dire che tale constatazione non è una novità e che era apparsa evidente al termine della Seconda guerra mondiale. Sennonché per i 60 anni seguenti, la contrapposizione prima con l’Unione sovietica e la passeggera illusione dell’unipolarismo dopo, avevano indotto a credere che gli Stati Uniti e l’Europa continuassero a condurre il gioco mondiale sul piano militare, economico-finanziario e dei princìpi.

 

L’implosione del sistema sovietico ha comportato, invece, paradossalmente la perdita di vigenza del modello occidentale: sono emersi prepotentemente l’Asia (sotto la spinta della globalizzazione) e il distruttivo fondamentalismo islamico, mentre si sono venute confermando tendenze di disallineamento tra Stati Uniti ed Europa. Talché, anche a seguito della crisi economico-finanziaria, degli ultimi eventi in Medio oriente e dell’incapacità di progredire nel cammino dell’integrazione politica, l’Unione europea ha cominciato ad assumere un atteggiamento inward looking, difensivo e non più proattivo. L’Europa è, purtroppo, sotto attacco sia da Sud che da Est ma non pare che abbia pienamente afferrato le implicazioni di questa nuova situazione. Nel mentre l’Europa ha fermentato il mondo negli ultimi secoli con le sue idee e istituti, ora essa subisce la pressione di chi nel passato era oggetto del suo dominio coloniale, pressione cui non è estranea – anche se spesso dissimulata – una qualche volontà di rivalsa se non di rivendicazione. L’Europa ha perso il suo primato politico-morale e, anche a ragione della sua mancata fisionomia unitaria, rischia di scivolare fra i junior partners nei consessi mondiali.

 

Quando nel 1951 fu formalizzato in una Convenzione internazionale il diritto d’asilo, il mondo era del tutto diverso. Al di là del suo contenuto etico, che discendeva da lunghe tradizioni storiche, la Convenzione fu uno degli strumenti per affermare la superiorità politico-morale occidentale nei confronti del mondo sovietico: la salvaguardia, che veniva internazionalmente consacrata, si rivolgeva in primis a quanti fuggivano dal mondo comunista, aveva una sua motivazione precisa nella persecuzione che una persona, sul piano individuale o in piccoli gruppi, subiva dal proprio stato a causa di profili politici, etnici, religiosi. Così evidente era la finalizzazione anti-comunista dell’istituto che per molti anni alcuni paesi, tra cui l’Italia sino ai primi anni Novanta, mantennero la cosiddetta clausola geografica che limitava l’applicazione dell’asilo soltanto a coloro che provenivano dall’Est europeo. Era insomma un istituto pensato per individui e non già per intere comunità. Con il passare del tempo, tuttavia, esso trovò sempre più applicazione nel Terzo mondo, dove alla discriminazione persecutoria si sovrapposero ragioni sempre più collettivamente orientate di libertà negate, di sviluppo compromesso, di collasso delle istituzioni statali, di guerre, di disastri economici ed ambientali.

 

Il diritto all’asilo propriamente detto si estese sino a dar vita a un diritto alla protezione umanitaria, i cui contenuti non si distinguono molto dalle attribuzioni del primo. I paesi del Terzo mondo, contigui a quelli fonte dei flussi migratori, si adattarono, anche sotto l’impulso e le forti racco- mandazioni dei paesi occidentali fatti valere con insistenza particolarmente nelle sedi onusiane, ad accordare accoglienza più o meno temporanea alle masse di “rifugiati” in movimento, tenendo anche conto del fatto che le società del mondo emergente sono ben più flessibili e meno strutturate di quelle dell’Occidente, con il conseguente minore dislocamento delle strutture interne per effetto dei massicci afflussi. Nessun governo occidentale previde che, di lì a poco meno di vent’anni, gli stessi paesi che avevano tanto promosso il diritto di asilo sarebbero stati chiamati a rispettarne l’applicabilità di fronte a movimenti di massa, che avrebbero interessato i rispettivi territori.

 

Proprio in questi ultimi due decenni si è andata diffondendo nelle aree emergenti la convinzione che il mondo moderno aveva riconosciuto non soltanto il diritto a emigrare, ma anche in qualche modo il diritto all’accoglienza. Ne fa fede l’atteggiamento assunto dai migranti, una volta raggiunto un paese di ricezione, allorquando volutamente distruggono spesso i propri documenti per poter meglio accampare il loro diritto ad usufruire della solidarietà internazionale in quanto “fuggiaschi” da situazioni insostenibili; allorquando tal- volta si rifiutano ostinatamente a cooperare nella raccolta delle impronte digitali; allorquando si oppongono a lasciare il paese di iniziale accoglienza una volta che le autorità locali non hanno convalidato la fondatezza della loro pretesa. I trasferimenti di popolazione, che hanno contrassegnato l’estate 2015, hanno malauguratamente avvalorato l’impressione di un’Unione europea quale entità incapace di proteggere i propri confini esterni, di una vasta area penetrabile anche eventualmente con l’immissione clandestina di terroristi: in sostanza di un territorio, che difetta di uno dei più importanti requisiti della sovranità.

 

Certamente, l’Europa ha mostrato l’immagine di un grande insieme dominato nella coerenza dai princìpi che la civiltà europea si era incaricata nel passato di diffondere nel mondo, una terra ligia all’imperativo dell’accoglienza e della solidarietà umanitaria, un rifugio di relativo benessere e di sensibilità sociale dove far convogliare i derelitti del mondo. Era questa d’altronde l’immagine che le élite europee volevano trasmettere e in cui giustamente si auto compiacevano le autorità nazionali ed europee. Ma è sostenibile questa “identità” europea nel contesto delle relazioni internazionali attuali? Negli ultimi anni la comunità internazionale ha subìto una inattesa involuzione “hobbesiana”, dove, come per tanti secoli nel passato, si fa sempre più ricorso alla violenza, dove i rapporti di forza costituiscono sempre più il criterio di condotta, dove la brutalità prevale, semmai ammantata con false e pretestuose considerazioni.

 

In un mondo siffatto, l’Europa si è atteggiata in termini “kantiani”, ostinatamente attaccata ai propri elevati valori, dimentica del fatto che quando creava e sosteneva tali valori aveva la forza e la determinazione di dominare il mondo. La drammatica dicotomia nei comportamenti può essere rappresentata, da un lato, dai marinai italiani che salvano i naufraghi alla deriva nel Mediterraneo e, dall’altro, i jihadisti che, nell’assoluto disprezzo della vita umana, immolano se stessi e quanti, vittime ignare e innocenti, si trovano nei paraggi. I flussi di migranti diretti verso l’Europa continueranno, in linea di massima, massicci nel 2016 e nei prossimi anni, se non decenni. Perché quando cesserà l’emergenza siriana, si apriranno altri fronti, oppure si aggraveranno ulteriormente situazioni già oggi gravide di esodi. D’altronde, il continente Africa, destinato a raddoppiare la propria popolazione da un miliardo di esseri umani a due miliardi nei prossimi 25 anni, non potrà che registrare condizioni statuali, che non reggeranno la pressione demografica, con una serie di nuovi failed States e fuoriuscite massicce di emigrati. (…) L’allargamento del contenuto del diritto all’asilo a fattispecie più ampie ha contribuito a diluire sempre più la differenza fra richiedenti di asilo, profughi per questioni più o meno ambientali e migranti economici. Ormai anche tra i rifugiati veri e propri la componente di “volizione” economica è sempre più presente, mentre, per converso, le motivazioni all’emigrazione enucleate nelle carenze delle famose tre D (Democracy, Development, Demography) si trovano intrecciate strettamente in ogni progetto migratorio.

 

D’altra parte, non appare facile ritrovare nel territorio, dopo mesi se non anni di permanenza provvisoria, stranieri cui è rifiutato l’asilo, mentre altrettanto difficile e laborioso è convincere i paesi di provenienza a riprendersi i propri cittadini.
Appare, infine, motivo di disperante ironia lo spettacolo di un’Unione europea e di suoi stati membri, destinazione di flussi così ingenti da non poter più essere gestiti dalle pur oliate macchine amministrative statali e, quindi, in un certo senso assaliti nella loro sovranità, darsi da fare in maniera scomposta per indurre, a suon di miliardi di euro e di impegni di cooperazione al- trettanto costosi, gli stati di transito e di origine dei migranti a dissuadere i migranti stessi dall’intraprendere il viaggio verso l’Europa. A noi europei, che siamo stati giustamente così contundenti nello stigmatizzare il passato colonialismo dei nostri paesi, non è mai venuto in mente che i presenti fenomeni migratori si potrebbero anche configurare come espressione di una sorta di involontario neo-colonialismo all’inverso?

 

La questione migratoria ha già creato uno sconquasso in Europa, presentandosi quale fattore di profonda disunione ben più incisivo di tutte le numerose problematiche economico-finanziarie. Sei paesi del Nord (comprese Germania e Francia) hanno già reintrodotto controlli temporanei alle frontiere. Intanto, si protrae sempre più impietosa la polemica tra i paesi del Sud (segnatamente Italia e Grecia), da un lato, che rivendicano assistenza, effettiva ricollocazione degli immigrati già in principio assegnati ad altri paesi membri, modifica della convenzione di Dublino; e i paesi del Nord, dall’altro, che reclamano il completamento e la messa in funzione degli hotspots per la registrazione dei nuovi arrivati. La polemica maschera una dura realtà, che si può così riassumere. L’Unione europea si è già divisa in tre gruppi: paesi dell’Europa orientale, che si sono chiusi a ogni concreta immissione di migranti attraverso i loro confini; paesi del cuore dell’Europa, assieme ai paesi nordici, che, anche in risposta alle crescenti, dure rimostranze delle rispettive opinioni pubbliche, vogliono filtrare con il contagocce i nuovi arrivi riducendoli al minimo, ma, allo stesso, tempo non vogliono ipocritamente perdere l’aura della fedele adesione ai grandi princìpi umanitari dell’Europa; e Italia e Grecia, infine, lasciate praticamente a loro stesse nel far fronte a una vera e propria – questa volta certamente – invasione.

 

Ci sono tutte le premesse per far esplodere l’Unione europea. Consideriamo un possibile, se non probabile, scenario per la prossima primavera, già d’altronde evocato pubblicamente dalle autorità di governo italiane: le masse di migranti che si infoltiranno sostanzialmente per la buona stagione, attraversata la Grecia e non potendo più seguire la rotta verso Nord del 2015, cercheranno di proseguire la marcia dirigendosi sia verso Trieste, sia verso l’Adriatico, oltre il quale potrebbero approdare nelle nostre coste “vacanziere” del Veneto, dell’Emilia-Romagna, delle Marche, del- l’Abruzzo-Molise e della Puglia.
Che farà allora il governo italiano, che potrebbe essere contemporaneamente alle prese con rinnovate partenze dalla Libia, teatro di possibili avvenimenti bellici? E’ presumibile che, sopraffatto da una emergenza ingestibile, esso dichiari il blocco delle frontiere terrestri e marittime, mentre i nostri partner europei, probabilmente, assisteranno inoperosi, lasciando soltanto all’Italia la responsabilità di una rottura così traumatica delle regole internazionali. D’altronde, se il governo di Roma non procedesse in tale direzione, è altrettanto facilmente ipotizzabile un ribaltamento politico, che offrirebbero forse mi- nori credenziali democratiche.

 

La situazione è potenzialmente drammatica: da un lato, la prospettiva della dislocazione delle strutture e degli equilibri europei, sia comunitari che interni; dall’altro, la ormai inderogabile necessità di battere in breccia, con atti conseguenti, la convinzione diffusa nelle aree emergenti che l’Europa è l’estremo approdo per tutte le tragiche lacerazioni – di origine politica, economica, ambientale – che dilaniano il mondo. Il dilemma appare ineludibile: o l’Europa prende atto del radicale cambiamento di paradigma internazionale, della sua attuale evanescenza quale soggetto della politica internazionale, della sua estrema debolezza e conseguentemente dell’esigenza di andare oltre il proprio orizzonte di irenismo e di pacifismo a oltranza, assumendo misure di decisa anche se limitata rottura con l’universo ideologico con cui si è finora identificata; oppure essa è destinata, presto o tardi, ad implodere e a cadere. Quello che qui si propone è l’applicazione, a tempo indeterminato, da parte dell’Unione europea, di una chiusura delle frontiere terrestri esterne e di quelle marittime, tramite blocco navale, in modo da lasciare entrare nel territorio europeo soltanto coloro che sono in possesso di un titolo valido. Ci saranno certamente violazioni di tale chiusura, ma essenziale è il segnale di annuncio di tale provvedimento.

 

A questo osta, in particolare, l’obbligo di non refoulement sancito nella legislazione internazionale, che comporta il dovere per le autorità dello stato, nel cui territorio (o anche a bordo di navi di bandiera) si introducano stranieri che si appellano al diritto di asilo, di non respingerli, ma di procedere all’esame della loro istanza. Allo stesso tempo, osterebbe l’impossibilità giuridica di rinviare i profughi verso paesi che non rispettano il diritto d’asilo e i diritti umani. Per quanto princìpi fondamentali nell’ambito delle norme umanitarie, non reputo che sia impossibile per i giuristi trovare, di fronte a situazioni che possono compromettere la stabilità e il senso di identità di un paese o regione, giustificazioni legali sufficienti per eluderne motivatamente il rispetto. D’altronde è quello che quasi sempre nei fatti, avvantaggiati dalla loro posizione geografica, succede a Stati Uniti e Canada, per non parlare dell’Australia che, sin dai tempi dell’esodo vietnamita, ha costantemente seguito – in un coro di proteste inter- nazionali per quanto attenuate – una politica volta a impedire alle imbarcazioni di migranti di toccare le coste australiane.

 

Ricordo che il Senatore Luigi Manconi, sia pure con motivazioni di fondo diverse, presentò due anni fa una proposta volta a fare esaminare le domande dei richiedenti di asilo nei campi di raccolta, ben prima del passaggio in Italia. Le suddette misure di chiusura dei confini dovrebbero, tuttavia, essere integrate dal riconoscimento dell’obbligo morale dell’Europa in generale a concorrere, con modalità e limiti com- patibili con la propria sopravvivenza, autonoma decisione, esigenze demografiche e capacità ricettive, ad alleviare le situazioni che producono profughi nel mondo mediante:

 

– l’indicazione annuale da parte degli Stati membri – e soltanto di quelli che intendono partecipare allo schema di resettlement – delle quote di rifugiati che sono pronti ad accogliere, dopo che in appositi centri di raccolta creati o potenziati nei paesi di transito sono state opportunamente vagliate le rispettive domande di asilo;
– la forte intensificazione della collaborazione, anche e soprattutto sotto l’aspetto finanziario, con le organizzazioni internazionali, quali l’Unhcr e l’Oim, per l’assistenza ai migranti, nel corso dei loro spostamenti e per la gestione delle grandi ag- glomerazioni umane nei centri di raccolta;
– il rafforzamento serio dei programmi di cooperazione, su base bilaterale e comunitaria, con i paesi di transito e, soprattutto, di origine dei migranti nel tentativo di rimuovere (sia pure in lunga prospettiva di tempo) le cause che provocano i flussi;
– la messa a punto in sede di Nazioni Unite di meccanismi automatici di sorveglianza, e alla fine di intervento, in relazione a quei paesi che per mismanagement interno di qualsiasi tipo aggravano la comunità internazionale con l’esodo delle rispet- tive popolazioni: non ci può più essere alcuna protezione al riguardo sulla base del principio della sovranità.

 

Non sfugge in questo quadro la delicatezza delle operazioni di blocco navale che dovrebbero essere affidate all’Unione europea in quanto tale (Frontex), anche se con l’ovvia prevalenza di mezzi e di uomini dei paesi più direttamente interessati. Dette operazioni dovrebbero svolgersi all’insegna del principio prioritario della salvaguardia della vita in mare, ma anche della più convinta determinazione a riportare a terra (o nelle acque territoriali da cui provengono) i barconi dei migranti. Sarebbe, tra l’altro, uno degli strumenti più efficaci per contrastare l’attività degli “scafisti”, che portano una responsabilità primordiale nell’approntamento delle “traversate” in mare e del conseguente micidiale prezzo pagato con la perdita di vite umane.
Nessuno si nasconde le enormi difficoltà che si frappongono alla realizzazione di siffatto schema, soprattutto nella fase pre- liminare della maturazione dell’accordo tra gli stati-membri. Merita, però, rilevare che di fronte all’iniziale, improvvida apertura della Cancelliera Merkel nell’estate 2015, più di recente a Davos il Presidente della Repubblica federale tedesca, Gauck, ha riconosciuto il dovere morale in alcune circostanze per uno stato di porre dei limiti agli ingressi dei migranti, con questo implicitamente eccependo all’incondizionata applicazione del principio di non refoulement.

 

Ma semmai fosse applicato, il piano potrebbe portare non pochi benefici:

 

a) raffredderebbe di molto la propensione dei migranti-profughi a puntare sull’Europa, inducendoli a rinunciare ai loro progetti migratori o ad accettare sistemazioni meno “confortevoli” di quella europea;
b) ridurrebbe sino ad eliminarle le possibilità di perdita di vite in mare;
c) farebbe ritrovare tutti i paesi membri dell’Unione europea attorno a una piattaforma condivisa e rafforzerebbe la percezione di un’Europa con interessi comuni;
d) toglierebbe dall’imbarazzo quei paesi (Italia e Grecia innanzitutto, ma non soltanto) che presto o tardi si potranno trovare nella spiacevole situazione di dover ricorrere come extrema ratio al blocco delle frontiere;
e) potrebbe riportare sufficiente fiducia in Europa per il pieno ripristino del sistema Schengen;
f) rimuoverebbe quella sensazione di permanente stato di emergenza, che domina ormai le opinioni pubbliche di tutti i paesi dell’Unione europea; solleverebbe la pressione sulle capacità di accoglienza in molti paesi ormai allo stremo; ricondur- rebbe il gioco democratico della politica all’interno dei paesi membri in ambiti di maggiore serenità, togliendo spazio alle punte estremistiche del ventaglio politico;
g) rappresenterebbe il “salto di qualità” necessario, perché l’Europa si renda conto che il contesto internazionale è radical- mente mutato e che si impongono degli aggiustamenti nei comportamenti e nei valori tali da incorporare, forse per la prima volta, l’esigenza inderogabile di difendere la propria sopravvivenza e identità, secondo le determinazioni delle rispettive popolazioni.

 

L’autore di queste righe, per esperienza professionale e convinzioni personali, riconosce lo “strappo” che una siffatta ipotesi costituisce rispetto alle rappresentazioni etiche su cui si è costruita l’Europa. E si è posto anche la questione di come essa si possa rapportare al grande insegnamento morale della Chiesa cattolica e di Papa Francesco in particolare. E’ giunto alla se- guente conclusione. Il Sommo Pontefice, nella visione universale della Chiesa che non fa distinzione tra esseri umani e che sollecita la “misericordia” verso tutti, ha il dovere di fronte all’umanità di continuare ad invocare la solidarietà e l’accoglienza, messaggio che la comunità internazionale ha ora, come mai prima, necessità di ascoltare dalla sua alta parola. Tuttavia, posti di fronte ai dilemmi della realtà effettuale, i governanti sono costretti dal loro ufficio a mediare e a scegliere il male minore e di questo devono sentirsi responsabili davanti alla loro coscienza, alla platea dei governati e alla storia.

 

Il realismo, che ha mosso questo scritto, porta, infine, il suo autore a prevedere che, semmai la proposta di cui sopra dovesse attrarre l’attenzione di qualcuno, essa sarebbe probabilmente subito accantonata con stupore e disagio. Eppure, come è successo con altre crisi europee, questa, che è la più drammatica, continuerà ad aggravarsi e ad assillarci sino al punto in cui, disastro dopo disastro, essa risulterà catastroficamente irrisolvibile. Intanto, non fosse altro che per scongiurarne la fatalità, sarebbe proficua la lettura del bel libro di Alessandro Barbero, “Barbari”, dove il termine si riferisce a moltitudini provenienti da altre civiltà, che irruppero senza più controllo in un grande impero, che non trovò più la forza e le ragioni per far fronte alle sfide della Storia.

 

 

Adriano Benedetti è già ambasciatore d’Italia a Caracas e poi Direttore generale degli italiani all’estero e delle Politiche migratorie al ministero degli Affari esteri dal 2003 al 2008. Quelli pubblicati sono stralci dell’ultimo numero della rivista “Affari Esteri”, diretta da Achille Albonetti