Il vescovo Nunzio Galantino (foto LaPresse)

La chiesa divisa alla prova migranti

Matteo Matzuzzi
Mentre il vescovo di Ventimiglia ha aperto ai profughi le porte della diocesi e si appresta a inaugurare tre tendopoli, in Ungheria il vescovo ausiliare di Budapest ha definito la rete innalzata la scorsa estate al confine con la Croazia “una misura efficace”

Roma. L’accoglienza dei migranti non è un dogma di fede, quindi è lecito che nella chiesa cattolica le idee sulla questione siano diverse. Basti pensare che mentre il vescovo di Ventimiglia ha aperto ai profughi le porte della diocesi e si appresta a inaugurare tre tendopoli (una nel parcheggio del seminario), in Ungheria il vescovo ausiliare di Budapest, János Székely, ha definito la rete innalzata la scorsa estate al confine con la Croazia “una misura efficace”. Che non ci sia una linea univoca è evidente – nonostante il Papa abbia parlato chiaro, facendo comprendere a tutti, con i discorsi ufficiali o a braccio e i viaggi a Lampedusa e Lesbo, qual è la sua posizione – e una prova della spaccatura l’ha offerta ieri Nunzio Galantino, segretario generale della Cei, che se l’è presa con quanti “si riempiono la bocca di aiutare le persone a casa loro”.

 

L’obiettivo dell’invettiva del presule sono le formazioni politiche che sostengono l’innalzamento di muri – che però  in Europa non esistono, secondo quanto ha sostenuto qualche settimana fa il presidente delle conferenze episcopali europee, il cardinale ungherese Péter Erdo – in chiave anti accoglienza. Il problema è che tra coloro che da tempo criticano la linea dell’apertura indiscriminata delle frontiere per “offrire un futuro” ai profughi ci sono pure le più alte gerarchie della chiesa del vicino e medio oriente, siriane e irachene, da un paio d’anni alle prese con la persecuzione jihadista. Chiaro sul punto era stato il vescovo caldeo di Aleppo, mons. Antoine Audo: “L’occidente non vede l’importanza storica della nostra presenza qui. Bruxelles incoraggia centinaia di migliaia di persone a sobbarcarsi un pericoloso viaggio verso i suoi confini con la promessa di asilo automatico e di una nuova vita. La conseguenza è stata devastante per chi è rimasto in Siria e in Iraq”. Per non parlare di quel che disse il Patriarca di Baghdad, mar Louis Raphaël I Sako, a giudizio del quale “aprire le porte ai rifugiati è un approccio molto sbagliato. L’Europa e gli Stati Uniti dovrebbero concentrarsi molto di più sulla sicurezza e la stabilizzazione della situazione nella terra da cui scappano i profughi”.

 

Ma anche dall’altra parte della cortina, nella Germania che più d’ogni altro paese comunitario ha mostrato la disponibilità a mettere in pratica la ricetta dell’accoglienza senza quote e limiti – ieri il Dalai Lama, in un’intervista alla Faz, ha detto che “se guardiamo i profughi in faccia, proviamo compassione, ma sono diventati troppi. L’Europa e la Germania non possono diventare arabe. La Germania è la Germania” – c’è chi ha sollevato più d’un dubbio sull’efficacia del “Wir schaffen das” (ce la possiamo fare) merkelliano. Il cardinale Reinhard Marx, presidente della locale conferenza episcopale e assai vicino a Papa Francesco, spiegava che a proposito dell’emergenza migranti “non si tratta solo di misericordia, ma anche di ragione. La politica deve sempre concentrarsi sul possibile e ci sono certamente dei limiti. La Germania non può farsi carico di tutti i sofferenti del mondo”.

  • Matteo Matzuzzi
  • Friulsardo, è nato nel 1986. Laureato in politica internazionale e diplomazia a Padova con tesi su turchi e americani, è stato arbitro di calcio. Al Foglio dal 2011, si occupa di Chiesa, Papi, religioni e libri. Scrittore prediletto: Joseph Roth (ma va bene qualunque cosa relativa alla finis Austriae). È caporedattore dal 2020.