Un gruppo di migranti sbarcati a Salerno (foto LaPresse)

Un confine per l'accoglienza

Claudio Cerasa
Migranti, chiesa, Merkel e utopie. All’origine dello smarrimento provato quando si avvicina l’estate e si osservano i barconi c’è un grande conflitto: la politica delle emozioni contro la politica delle intenzioni. Il caso italiano.

Siamo tutti lì fermi a guardare le immagini, i numeri, gli articoli sui giornali, i dati sugli sbarchi, le parole dei politici, i gesti dei parroci e gli occhi dei neonati arrivati a destinazione dopo lunghe traversate in mare in cui hanno perso i propri genitori. Siamo tutti lì fermi a cercare di capire se la nuova ondata di sbarchi è un’ondata anomala oppure no, se la chiusura della rotta balcanica trasformerà l’Italia in un grande centro di accoglienza oppure no, se il governo libico riuscirà a fare con l’Italia quello che la Turchia ha fatto con la Germania sui flussi migratori oppure no e siamo tutti lì fermi a cercare di capire qual è il limite dell’accoglienza: se a un certo punto bisogna dire basta, stop, fermatevi, non vi prendiamo più; o se il limite invece non esiste, come suggerisce la dottrina sans frontières di Papa Francesco, e se dunque il modello giusto da seguire sia quello suggerito dal parroco di Ventimiglia, che ha scelto, modalità Fuocoammare, di aprire le porte della sua parrocchia a tutti i migranti della città, senza badare troppo a chi ha davvero il diritto di restare in Italia. Eppure, quando parliamo di immigrazione, c’è qualcosa che va al di là dei numeri e delle immagini e che si trova all’origine dello smarrimento provato da molti di noi ogni volta che ci si avvicina all’estate e si osservano i barconi affondare in mare prima di arrivare in Italia. Qualcosa che gira attorno a una domanda precisa: può esistere sull’immigrazione una politica delle intenzioni in uno scenario dominato dalla politica delle emozioni?

 

La politica delle emozioni è quella che ti chiede semplicemente di chiudere gli occhi, di aprire i cuori, di spalancare i confini e di accogliere un fratello in difficoltà che arriva disperato da un’altra parte del mondo. A fronte di un flusso di migranti regolare, la politica delle emozioni potrebbe persino essere sostenibile. Alla lunga, però, una politica che omette alcune questioni cruciali genera inevitabilmente insicurezza, anche in presenza di statistiche non ancora allarmanti. Se guardiamo i numeri degli sbarchi essi ci dicono infatti che l’emergenza migranti è una emergenza relativa rispetto a un anno fa: 45.900 sbarchi nei primi cinque mesi del 2015, 46.500 sbarchi nei primi sei mesi del 2016, ma 12 mila solo nell’ultima settimana. Ma la non emergenza diventa nuovamente emergenza se la si guarda da un altro punto di vista e si prova a rispondere a una domanda semplice: esiste o no un limite oltre il quale il nostro paese non può andare nell’accoglienza dei migranti? La risposta a questa domanda, che è negativa, e dunque no, niente, non esiste un limite, è la vera radice del nostro smarrimento e merita di essere approfondita.

 

Come è possibile che non ci sia un limite? E come può essere giustificabile una politica che non sceglie da che parte stare e si limita a portare avanti la logica dell’accogliamo chi ce la fa? La nostra naturalmente è una piccola provocazione perché, come è noto, in teoria esistono delle norme che regolano il flusso dei migranti. Le norme dicono che possono rimanere in Italia solo i rifugiati che hanno diritto a una protezione in base alla quale può essere accettata una richiesta d’asilo. Ma anche qui non esistono limiti e se i 12 mila arrivi della scorsa settimana dovessero diventare la prossima settimana il triplo non si può fare nulla: la marina militare, secondo quanto previsto dal diritto internazionale, deve portare i naufraghi che vengono avvistati nel porto prossimo più sicuro e avvenendo tutti i naufragi a cavallo tra le acque italiane e quelle internazionali i porti sicuri più vicini saranno sempre e comunque quelli italiani. Naturalmente, molto potrebbe cambiare nel momento in cui un governo libico pienamente legittimato dovesse decidere di dare alla nostra marina la possibilità di accedere alle acque territoriali libiche e in quel caso sarebbe più semplice sia arrestare gli scafisti (che oggi non superano mai i confini delle acque libiche) sia riportare in Libia tutti coloro che non hanno diritto ad arrivare in Italia. Nell’attesa che ci sia un governo pienamente legittimato in Libia (ma anche il governo italiano non sembra avere particolare fretta ad accelerare questo processo politico) resta da mettere a fuoco quello che è il vero buco nero della nostra politica di immigrazione. Un buco nero che si lega a una percentuale nota al ministero dell’Interno: il 45 per cento. Solo il 45 per cento dei migranti che arriva in Italia ottiene infatti il diritto d’asilo. Significa che sui 153 mila arrivi dello scorso anno solo 68 mila avevano il diritto di rimanere in Italia. E gli altri 85 mila? Circa 10 mila sono stati rimpatriati in modo coercitivo e altrettanti sono stati rimpatriati in modo assistito. Ne restano fuori circa 65 mila che non sarebbero mai dovuti entrare in Italia. Non un numero enorme ma che rappresenta comunque la metà di coloro che arrivano in Italia e che hanno diritto a restare nel nostro paese. Il problema allora è evidente: si può essere credibili nell’accoglimento delle richieste di protezione umanitaria senza tetti numerici se non si è efficaci nell’espulsione di chi non ha titolo all’asilo o non ha neanche presentato la domanda? Districarsi in un mondo dominato dalla politica delle immagini e delle emozioni, in un mondo egemonizzato dal pontificato senza frontiere di Papa Francesco, in un’Europa in cui persino l’inflessibile Angela Merkel ha condannato la politica del tetto di ingresso dei rifugiati non è facile. Ma per un paese come l’Italia, esposto sul mare e senza barriere naturali, aver scelto semplicemente di accogliere chi ce la fa può funzionare solo in presenza di piccoli numeri e di fenomeni transitori. Se poi il flusso dovesse aumentare e i migranti dovessero moltiplicarsi, come è possibile che accada nei prossimi mesi, tutti i limiti del modello di immigrazione-integrazione verrebbero alla luce e sarebbe finalmente chiaro che è semplicemente una non scelta seguire il modello “viva il parroco” dell’accoglienza sans frontières.

 

  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.