Valide ragioni per dire "No" alla truffa del referendum

Contro il totalitarismo delle virtù civiche

Rocco Todero
Dalla truffa mediatico giudiziaria alle risorse da garantire per le future generazioni, dalla pericolosa ideologia anti industrialista alla Costituzione brandita contro gli astensionisti. Girotondo fogliante.

I promotori del “si” al referendum i  hanno intravisto nel richiamo politically correct all’ossequio verso le “virtù civiche” la possibilità di raccattare qualche “no” che possa comunque consentire il raggiungimento del quorum previsto dall’articolo 75 della Costituzione repubblicana. I più severi si sono persino spinti ad ammonire i componenti del Governo e gli altri pubblici ufficiali propensi a non recarsi alle urne ad evitare di fare propaganda a favore dell’astensione per non incorrere nei reati previsti dal Testo unico delle leggi elettorali (distorcendo ad arte così il senso delle norme richiamate).

 

Dovrebbe essere già sufficiente porre mente al fatto che l’articolo 48 della Costituzione qualifica l’esercizio del diritto al voto utilizzando anche l’espressione non certo univoca di “dovere civico”, locuzione che ha sempre lasciato sottintendere l’impossibilità di  servirsi dell’ampio ventaglio delle vere e proprie sanzioni giuridiche per punire o scoraggiare in qualche modo l’astensione. Sarebbe d’altronde veramente anacronistico e illiberale pensare di poter sanzionare in qualche modo la libera preferenza del cittadino che, senza costrizione alcuna, abbia deciso di non recarsi alle urne e di accettare in ogni caso l’esito elettorale determinato dalle scelte altrui. L’esercizio del voto dovrebbe essere quindi più correttamente inquadrato nell’alveo dei diritti e delle libertà piuttosto che all’interno dei doveri di qualsivoglia natura.

 

La libertà di astenersi dalla competizione elettorale trova poi numerose ulteriori giustificazioni con particolare riguardo alla celebrazione del referendum abrogativo. Come è stato opportunamente fatto osservare già l’articolo 75 della Costituzione prevede un quorum, evidentemente per sottolineare la necessità che una norma di legge approvata dal Parlamento, cui spetta in primo luogo l’esercizio della sovranità, non sia abrogata da una minoranza troppo esigua di cittadini che, per quanto ben organizzata e rumorosa, potrebbe non essere in grado di suscitare l’interesse della maggioranza degli elettori. Il corpo elettorale, infatti, potrebbe a ragione rifiutare di essere posto dinanzi alle alternative secche tipiche del referendum, “sì” o “no”, e preferire che sia il Parlamento in una democrazia rappresentativa a trovare soluzioni in grado di soddisfare con opportune mediazioni una pluralità di interessi in modo da non lasciare sul campo da un lato i vinti e dall’altro i vincitori.

 

Spesso poi è l’eccessiva tecnicità del quesito referendario a giustificare l’astensione. Viene chiesto, infatti, al cittadino/elettore di esprimersi su tematiche la cui approfondita comprensione richiede un livello di impegno che configge radicalmente con la “libertà dei moderni” e che è lecito domandare, invece, alla classe dirigente che si è assunta la responsabilità di governare il paese.

 

Il referendum sull’acqua tenutosi nel 2011, ad esempio, ha rappresentato la prova inconfutabile di come l’esercizio della democrazia per mezzo del referendum in materia particolarmente tecniche si presti a derive populiste che non è possibile arginare facilmente.

 

L’astensione, pertanto, in alcuni casi è un richiamo al corretto funzionamento della democrazia rappresentativa, all’assunzione di responsabilità da parte del ceto politico. In quest’ordine d’idee non è nemmeno da vedere con sospetto la preferenza del governo per l’astensione, atteso che l’esecutivo è il titolare dell’indirizzo politico e può legittimamente rivendicare il diritto di ricercare ulteriori soluzioni normative in grado di beneficiare dell’apporto tecnico e politico dei numerosi punti di vista di cui potrebbe farsi sintesi all’interno di un nuovo provvedimento legislativo.

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