Matteo Renzi (foto LaPresse)

Renzi e la sfida con gli altri ayatollah

Claudio Cerasa
Perché il primato della politica che il premier ha voluto imporre nei rapporti con gli ayatollah delle procure ha creato una frattura non ricucibile con i pm politicizzati. I punti veri della battaglia, le intercettazioni e la pax impossibile.

Nel giorno dell’arrivo di Matteo Renzi a Teheran, prima visita di un capo di governo occidentale nel regime degli ayatollah dopo l’abolizione delle sanzioni legate al dossier nucleare, il grande tema che riguarda il governo guidato dal segretario del Pd è legato a una questione cruciale che sfiora il campo del referendum costituzionale (quello di ottobre di cui ha parlato ieri Renzi alla Camera) e tocca da vicino, prima ancora dei rapporti commerciali con l’Iran, il rapporto di Renzi con altri speculari guardiani della rivoluzione: i magnifici ayatollah delle procure italiane. La questione, anche alla luce delle parole non univoche e contraddittorie rilasciate nel fine settimana da Renzi (i magistrati devono fare di più, ma le intercettazioni non si toccano), è una ed è centrale: che speranze ci sono che il presidente del Consiglio riesca a costruire con la magistratura politicizzata un patto simile a quello firmato dall’occidente con il governo di Teheran sul nucleare iraniano? In altre parole: la decisione di Renzi di non voler insistere con la riforma delle intercettazioni, di non voler entrare nella carne viva della riforma del processo penale, di non voler separare le carriere dei magistrati, di non voler mettere mano alla riforma dell’obbligatorietà dell’azione penale, di non voler rivoluzionare il sistema correntizio dei magistrati, di non voler toccare il sistema elettivo del Csm, di non voler limitare il potere discrezionale di cui godono i pm, può essere considerato parte di una strategia più ampia finalizzata a interrompere vari e minacciosi processi di arricchimento dell’uranio (le intercettazioni a strascico, politicamente, valgono quanto un’arma nucleare) che si intravedono qua e là in alcune procure italiane, che periodicamente lanciano precisi messaggi al cerchio magico renziano? E, soprattutto, se questa strategia c’è, è sufficiente per provare a costruire un deal, ovvero un compromesso con la magistratura?

 

Per rispondere a questa domanda è necessario fare un passo indietro e provare a fare un ragionamento sul metodo scelto da Renzi per affrontare il problema oggettivo relativo al grande squilibrio che esiste oggi nei rapporti tra politica e magistratura (tutto a favore della seconda). Renzi conosce bene questo problema (“Due testimoni interrogati prima degli arrestati. Assurdo. Non è accettabile che i magistrati convochino un ministro esercitando una sorta di sindacato sull’azione legislativo”, ha detto venerdì sera al termine del Cdm il presidente del Consiglio). Ha capito che la trasformazione di alcuni magistrati in ayatollah delle procure è un dramma italiano. E da quando è alla guida del Pd e anche del paese ha mostrato in varie occasioni di essere sensibile, in nome del primato della politica, al tema del riequilibrio della separazione dei poteri. Nasce così la scelta di portare, per la prima volta nella storia, un esponente del governo (Legnini) alla vicepresidenza del Csm. Nasce così la decisione di sostituire, ai vertici delle burocrazie ministeriali, i consiglieri di stato con funzionari di partito o funzionari delle camere. Nasce così la firma, in diretta twitter, della legge sulla responsabilità civile dei magistrati. Nasce così, anche qui caso significativo, la scelta di affidare il ruolo di responsabile giustizia del partito non a un ex magistrato, come avvenuto in passato, ma a un avvocato (David Ermini). Nasce così la scelta, inusuale per il capo di un partito di sinistra, di sfidare il principio della non valutazione della politica sull’operato della magistratura scegliendo, a indagini in corso, alcuni esponenti del governo a prescindere dal fatto di essere indagati (Barracciu, Del Basso, De Caro, Bubbico e De Filippo) e difendendo, sempre a indagini in corso, l’ex governatore dell’Emilia Romagna Vasco Errani e il suo successore alla presidenza dell’Emilia Romagna Stefano Bonaccini. Nasce così, infine, oltre alla famosa norma che ha tagliato le ferie dei magistrati, la scelta di (a) eliminare il trattenimento in servizio dei magistrati, facendoli andare in pensione a 70 anni e non più a 75; (b) di rendere impossibile ai magistrati il ricevimento di consulenze a pagamento, la partecipazione ai collegi arbitrali, la presenza all’interno delle commissioni di collaudo, la nomina, con corrispettivo gettone, nei cda delle aziende pubbliche; (c) di far entrare in vigore una norma che costringe anche le procure a seguire procedure di evidenza pubblica per scegliere chi fa le intercettazioni.

 

I segnali di “sfida” vera e concreta al potere costituito della magistratura ci sono e sono molti e si capisce bene dunque la ragione che può aver spinto la parte più politicizzata della magistratura (una piccola parte, naturalmente) a considerare Renzi un presidente del Consiglio che merita di essere “attenzionato” con lo stesso amore con cui le procure hanno seguito negli ultimi trent’anni i percorsi di tutti i politici che hanno provato a riequilibrare il rapporto tra potere giudiziario e potere esecutivo (e ovviamente legislativo). Nel corso dei mesi, Renzi, resosi conto di avere su di sé, sul suo mondo e sulla famiglia, gli sguardi non troppo discreti della magistratura (è solo un caso che a un anno dalla richiesta della procura di Genova di archiviazione dell’indagine su Tiziano Renzi non sia ancora arrivata una decisione del giudice?) ha cercato di ricalibrare il tiro seguendo una doppia strada. La prima strada è quella dei simboli, la seconda è quella della conquista delle procure.

 

Sulla strada dei simboli non si può non notare che accanto ai gesti di sfida di Renzi ce ne siano altri finalizzati più all’appeasement (deroghe sulle pensioni dei magistrati, no separazione delle carriere, no revisione obbligatorietà dell’azione penale, no riforma del Csm, per non parlare della trasformazione di un magistrato, Raffaele Cantone, nel dominus assoluto della politica italiana). Sulla strada della conquista delle procure, invece, è sufficiente osservare la natura di alcuni magistrati scelti dal plenum del Csm per ricoprire cariche importanti in giro per l’Italia – Francesco Lo Voi procuratore capo di Palermo, Margherita Cassano alla presidenza della Corte d’appello di Firenze, Giovanni Canzio alla guida della Corte di Cassazione – per capire che Renzi, al contrario di Berlusconi e Craxi, ha compreso che il modo migliore di cambiare la magistratura non è fare le riforme (o almeno, non solo) ma è semplicemente cambiare, per quanto possibile, la stessa magistratura.

 

Per ritornare alla domanda iniziale da cui è partito questo articolo – la strategia del bastone e della carota scelta da Renzi con i pm italiani può portare a costruire un compromesso con la magistratura italiana? – la risposta, mettendo insieme i fatti, non può dunque che essere negativa. Renzi, nonostante tutto e nonostante le sfide, sta provando sì a offrire ai magistrati un patto di non belligeranza. Ma l’impressione (vedi la partecipazione di Magistratura Democratica al referendum costituzionale schierata contro la riforma Renzi-Boschi, vedi l’arrivo di Davigo alla guida dell’Anm, teorico della linea “Non esistono innocenti ma solo colpevoli non ancora scoperti”) è che il primato della politica che Renzi ha voluto imporre nei rapporti con giudici, pm e ayatollah delle procure ha creato una frattura non ricucibile tra il presidente del Consiglio e i magistrati politicizzati. E se l’idea di Renzi è quella di non regolamentare con severità la giungla delle intercettazioni per non inimicarsi del tutto il circo mediatico giudiziario, è bene che il capo del governo apra gli occhi e si renda conto che è vero il contrario: se la battaglia tra governo e magistratura politicizzata è in corso (e lo è) offrire al circo mediatico giudiziario la possibilità di spacciare ancora la libertà di sputtanamento per libertà di stampa è il regalo più grande che oggi si possa fare a chi sogna un domani di dare una spallata al cerchio magico renziano. Chi tocca le intercettazioni finisce gambe all’aria, come ricorderà anche Romano Prodi, il cui ultimo governo si interruppe in seguito a una famosa inchiesta portata avanti dalla procura di Santa Maria Capua Vetere contro la famiglia Mastella (coincidenze della storia: a quei tempi, in quella procura, anche se estraneo all’inchiesta sui Mastella, il procuratore aggiunto era Luigi Gay, attuale procuratore capo di Potenza). D’altra parte chi non tocca le intercettazioni – e sceglie di sfidare il potere costituito della magistratura – deve sapere che si può essere le persone più pulite e corrette del mondo ma se gli ayatollah decidono di arricchire il loro uranio non c’è carota che possa evitare che la bomba delle intercettazioni prima o poi esploda contro di te. Chiaro, no?

Di più su questi argomenti:
  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.