Italicum, il male maggiore?

Stefano Ceccanti
Ha senz’altro ragione Angelo Panebianco (Corriere del 28 dicembre) quando ci ricorda che il collegio uninominale maggioritario è il modo più semplice e trasparente di eleggere i parlamentari, sfuggendo all’alternativa tra liste bloccate e preferenze.

Al direttore - Ha senz’altro ragione Angelo Panebianco (Corriere del 28 dicembre) quando ci ricorda che il collegio uninominale maggioritario è il modo più semplice e trasparente di eleggere i parlamentari, sfuggendo all’alternativa tra liste bloccate e preferenze. Tuttavia che esso sia anche la formula magica che ci consente una legittimazione diretta dei governi, un raccordo stringente tra cittadini, maggioranza parlamentare e governo, non è automatico. Perché tale obiettivo si realizzi è necessario che nella gran parte dei collegi si ripeta lo scontro tra i due medesimi partiti o schieramenti, come accade nel Regno Unito. In assenza di questo requisito, il sistema rischia di girare a vuoto, scontentando sia i proporzionalisti (per i quali sarebbe sacra la corrispondenza tra voti e seggi, tranne poi il problema successivo di come costituire un governo) sia i maggioritaristi (che vogliono un esito chiaro delle elezioni in termini di governo).

 

I francesi avevano il doppio turno di collegio sotto la Terza Repubblica, ma questo non produceva risultati chiari sul piano nazionale a causa della frammentazione delle forze politiche. Per questo, quando la proporzionale della Quarta Repubblica si rivelò inadeguata, il dibattito che sorse nel 1956 non fu tanto sul ritorno al collegio uninominale maggioritario, ma su come collegarlo all’elezione diretta del vertice dell’esecutivo. Per Duverger si sarebbe trattato di eleggere direttamente lo stesso giorno il premier e i deputati, per Vedel il presidente della Repubblica e i deputati: sarebbe stata la prima scheda a nazionalizzare il voto e a orientare quindi la seconda, ritornando poi automaticamente al voto in caso di dimissioni o di sfiducia. Si tratta del modello che poi noi negli anni ’90 abbiamo trapiantato efficacemente in regioni e in comuni, sia pure agganciato a un sistema a premio. Lo stesso De Gaulle, che restaurò nel 1958 il collegio uninominale, sapendo che quell’anno sarebbe stata la sua persona a nazionalizzare la competizione nei collegi, decise poi nel 1962 di abbinarvi l’elezione diretta del presidente per stabilizzare il sistema. Per di più nel 2000, per renderlo ancora più coerente sfuggendo all’anomalia della coabitazione, si decise che dal 2002 il mandato del presidente sarebbe stato quinquennale come quello dell’Assemblea e che l’elezione del primo sarebbe stata un mese prima rispetto a quello della seconda con un effetto di traino e di nazionalizzazione analogo, se non superiore, a quello pensato da Duverger e Vedel. Il partito che vince la presidenziale, magari partendo da meno del 30 per cento al primo turno, vede tutti i suoi elettori ben mobilitati per l’elezione dei deputati, mentre quelli delle forze sconfitte tendono a smobilitare per lasciare comunque governare il presidente neo-eletto. Al termine dei quattro turni di elezione è lecito attendersi una maggioranza in seggi ben più consistente del 54 per cento dell’Italicum, per di più con un continuum di maggioranza più ampio che parte dal capo dello stato anziché dal primo ministro. Se nel 2017 si votasse solo nei collegi o se le elezioni per l’Assemblea venissero prima di quelle del presidente non è detto che si avrebbe una legittimazione diretta di un governo per la legislatura. Un po’ difficile pertanto mettere coerentemente insieme le riserve sulla concentrazione di poteri che si realizzerebbe da noi con il sistema francese.

 

[**Video_box_2**]Il richiamo al dibattito francese del 1956 è utile anche per un altro profilo, lo spettro dei partiti anti-sistema. Com’è noto in quel momento il partito più organizzato era il Pcf di Thorez e il partito emergente di protesta era quello del cartolaio Poujade (di cui faceva parte anche Jean-Marie Le Pen) che raccoglieva lo scontento contro le coalizioni deboli ed eterogenee bloccate al centro del sistema. “Ci porterete a un ballottaggio in cui potrebbero vincere o Thorez o Poujade”: era lo spettro sollevato contro la campagna di Duverger e Vedel sul Monde. Essi invece cercavano di spiegare che proprio l’adozione di un sistema che avrebbe messo in palio il governo avrebbe sia riorientato l’offerta politica, sia sgonfiato il voto di protesta perché ne avrebbe rimosse le cause, di impotenza e di mancanza di trasparenza. Cosa propone in positivo chi oggi al posto di Thorez e Poujade agita gli spettri di Salvini o Grillo vincenti al ballottaggio? Di fatto sostiene un sistema in cui non dovrebbe vincere nessuno col voto e in cui, però, quegli stessi soggetti (o almeno una parte di loro) dovrebbero aiutare a formare una coalizione dopo il voto. Chi l’ha detto, però, che nel momento in cui c’è bisogno di una coalizione essa si formi davvero? Proprio il caso spagnolo per alcuni mesi ci dimostrerà che questo sguardo pessimista sugli elettori e ottimista sulle doti compromissorie delle dirigenze politiche è alquanto astratto: l’esito più probabile resta tuttora, a meno di imprevisti, quello di elezioni a ripetizione mentre la crisi si aggrava. Non tutta l’Europa ha la cultura politica consensuale tedesca che, peraltro, non è esente da lasciare cadaveri: si veda la sorte della Spd.

 

Per queste ragioni, per quanto io condivida con Panebianco l’invito pragmatico a evitare il benaltrismo di alcuni critici che avrebbero in mente sistemi migliori per i quali non avrebbero comunque i voti in Parlamento (e che spesso sarebbero ben più maggioritari di quello che stiamo per sperimentare), eviterei di usare per l’Italicum il concetto di “male minore”. Parlerei piuttosto di “bene possibile”, quello più adeguato alle condizioni di partenza del sistema dei partiti. Mentre Madrid ci mostra il “male maggiore” in cui potremmo precipitare senza di esso.

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