Matteo Renzi durante la visita ai militari italiani in Afghanistan nello scorso giugno (foto LaPresse)

Caro Renzi: la guerra è vera, non culturale

Mario Sechi
“E' il momento di dirlo: siamo in guerra”. Parla l’ex ministro della Difesa Arturo Parisi

C’è la guerra. Ma nominarla in Italia è questione da trattato di psicologia collettiva, è una no fly zone, territorio di totem e tabù. Guerra? Al massimo è war on terror (degli altri). Bombardamento? No, è uno strike (sempre degli altri).  Truppe di terra? No, sono boots on the ground (ancora degli altri). Spiegare il mestiere delle armi agli italiani, impresa titanica. Arturo Parisi sorride, orfano di guerra, allievo della scuola militare della Nunziatella, ministro della Difesa con il governo Prodi, resta un falco saggio tra le colombe isteriche. Parlare di guerra? Non può che sorridere in modo sardonico, Parisi, la vita nell’isola gli ha insegnato che c’è una naturale durezza e crudeltà dell’esistere. Il sangue. Rosso, come la notte del venerdì 13 di Parigi. Hollande costruisce la sua coalizione per combattere in Siria e Iraq, i turchi abbattono aerei russi, Putin è il perno delle operazioni contro Isis, Obama è fermo sulla linea rossa, l’Europa ha il nemico in casa.

 

L’Italia? Un dilemma. “Dobbiamo abbracciare stretti la Francia”, dice Parisi. Perché? “Vedo la tentazione di Parigi di volgere il lutto in egemonia”. Hollande s’è trasformato, da normal a statista. Che è successo? “A Hollande la storia ha posto una domanda: vuoi interpretare il repertorio previsto in questi casi per il presidente della Francia? Lui ha detto sì. Sino a quel momento era un po’ sbandato. C’è un software che prevede una serie di comportamenti per il presidente, esistono anche musica e testi. La Marsigliese è una chiamata alla guerra, non dimentichiamolo”. Perché in Italia la guerra è un tabù? “E’ il mood del paese e della sua classe politica sulla difesa”. Quale sarebbe? “Abbiamo emarginato la morte dalla vita quotidiana, la malattia, il dolore, il sangue è stato messo da parte. Perfino quello delle galline. La gente immagina che le galline vengano su già incellofanate”. Sì, le galline, ma quella contro Isis è una guerra. “Anche io con quella parola ho dovuto fare i conti. In Afghanistan, dove c’erano argomenti per definirla guerra, la copertura Onu ci impose di chiamarla in maniera diversa. Ma questa è una guerra, per tre motivi: c’è un’aggressione sul territorio europeo, una definizione come ‘guerra’ e una ‘dichiarazione di guerra’ da parte di un partner come la Francia, l’aggressione di Isis che è indiscutibilmente guerra”.

 

E perché Renzi non la cita come tale? “Capisco le scelte di Renzi, non ne condivido il progetto. Deve sì misurare parole e gesti nel presente, ma lavorare a costruire il consenso per il futuro. Per questo il lavoro sulle parole è fondamentale. Deve parlare il più chiaramente possibile, ben sapendo che deve invertire il mood sulla difesa. Ma non può permettersi di trasformare subito un ex scout in un generale”. Ma è il capo del governo! “Appunto, è diventato presidente del Consiglio, quindi impropriamente anche il comandante in capo, e deve fare un ragionamento sul suo percorso”. Quale percorso? “Parlare con parole di verità. Un eccesso di bellicismo sarebbe sbagliato, verrebbe interpretato come una sbandata a destra, non credibile. Ma a maggior ragione, è errato pensare che la guerra sia la rivoluzione di qualche gruppo che ha interesse a farla. Non è così, pochissimi vi inzuppano il pane e lo si inzuppa in una cosa che in ogni caso vive per conto suo”. Truppe di terra? “Le abbiamo già, dobbiamo farci carico delle responsabilità e condividerle con i cittadini che non ne sono adeguatamente avvertiti. Non abbiamo solo piedi e scarponi sul terreno, abbiamo anche teste. A cominciare dal Libano, tra i nostri soldati e le ‘aree calde’ corre la distanza che c’è tra Sassari e Cagliari. E quelli di Hezbollah sono reparti combattenti totalmente coinvolti nella vicenda siriana, non so se mi spiego”. Si è spiegato. 

 

Siamo già dentro il conflitto? “Totalmente dentro. Il nostro gap non è nel numero di scarponi e mezzi, è nel fatto che non abbiamo chiari i fini e così i piedi stanno precedendo la testa”. Dov’è la strategia? “Questo è il punto. In Turchia Renzi ha parlato di necessità di ‘una visione complessiva’. Bene, questo significa che il campo è quello di una regione che noi chiamiamo Mena, dall’Afghanistan al Nord Africa. In quest’area noi ci siamo come nessun altro, il numero di scarponi italiani sul terreno è incomparabile rispetto a quelli di qualsiasi paese europeo”. Siamo dentro sul campo e fuori nella politica. Non è surreale?  “Non ci sono solo Siria e Iraq, la faccenda è più ampia, il terrorismo in franchising è ovunque, pensi al Nord Africa, e lo dico mentre sto guardando dall’alto l’ambasciata nigeriana a Roma. Dobbiamo inevitabilmente dismettere quest’approccio zuccheroso al problema. Come sempre, ci sono falchi e colombe, ma è bene che i falchi non falcheggino troppo e non perdano il contatto con le colombe. C’è un lavoro di lunga lena da fare. Lo dice uno che è stato costretto dalla vita a vivere con le colombe…”. Le colombe del Papa e dei pacifisti. “Ricorda le immagini Papa Francesco e due bambini che lanciavano le colombe in piazza San Pietro?”. Ne ho memoria. “Bene, allora ricorderà che le colombe liberate furono ghermite in volo da cornacchie e gabbiani. Le fecero fuori in due minuti”.

 

[**Video_box_2**]C’è una morale? “Commentai quelle immagini su Twitter: chi proteggerà le colombe di Papa Francesco? In quel momento si discuteva di F-35”. Molti con il suo percorso politico sono pacifisti, lei no. Perché? “Ho fatto una sintesi diversa, è la mia vita. Primo, come orfano di guerra, mio padre fu ucciso a Cagliari in un bombardamento. Secondo, come allievo della scuola militare di Napoli, alla Nunziatella, dove ho approfondito i temi legati alla difesa dalla spada altrui. Sono poi arrivato a una sintesi di tutti questi fili, che erano anche religiosi cattolici, e ci sono dovuto arrivare velocemente, mentre altri nel frattempo intraprendevano un viaggio verso il pacifismo. Io mi sono reso conto che questa non era una cosa a disposizione”. Ma i cattivi esistono, la strage di Parigi non è bastata a capirlo? “E’ una questione di esperienza della vita.  Pensi ai “diavoli rossi”, alla Brigata Sassari. Erano diavoli e rossi perché avevano un’esperienza del conflitto, della necessaria imposizione su altri esseri viventi. Quali sono le pecore nel momento della mungitura o gli agnelli nel momento in cui li si uccide”. Radici. Come sono le nostre forze armate? “Affidabili, non è poco. Ma resto un seguace di Machiavelli e di Cattaneo, sono per l’esercito di popolo. Non ho mai condiviso, anche se ero al governo, la trasformazione del servizio militare”. Senza leva, senza la parola guerra nel dibattito pubblico. E con la Francia che fa da sola. Siamo già stati messi ai margini? “La Francia si è rimessa in proprio. Non possiamo dimenticare che la Francia è quella che ha fatto saltare la comunità europea di difesa, è quella che ha scelto in solitudine l’armamento atomico, è quella che ha detto ‘no’ alla Costituzione europea. E se noi non abbracciamo in fretta la Francia, quella se ne va e di Europa ne parleremo nel prossimo millennio, non nel prossimo secolo. La Francia parla con la Germania per la divisione del lavoro, poi con il Regno Unito per il coordinamento. Una volta che la Francia si riposiziona al vertice di questo triangolo con ai lati Germania e Regno Unito e poi Hollande fa dei viaggi in America e delle telefonate in Russia, l’Europa ha finito di esistere”.

 

Renzi cosa dovrebbe chiedere a Parigi? “Il coordinamento. Parigi non può fare quello che vuole senza farcelo sapere e poi noi finiamo nei guai. Ma loro potrebbero non essere interessati perché vogliono recuperare la loro antica statura e agibilità, essere alleggeriti dai vincoli europei”. E l’appoggio militare? “Abbiamo delle risorse da mettere in gioco. E’ importante la qualità, la guerra è sempre meno identificata con la sua componente militare, si possono fare cose molto ‘cattive’ anche senza”. Quali cose cattive? “Pensi alla cyberwarfare, all’azione sulla finanza, sui rifornimenti di petrolio, sugli approvvigionamenti. Senza alcuna incertezza escluderei e colpirei con vari strumenti chiunque abbia rapporti ambigui con Isis”. L’elenco è lungo. E la guerra aerea? “Ha bisogno di personale qualificato che indichi gli obiettivi per i caccia. Non è un problema di scarponi, ma di occhi e di teste sul terreno. Un intervento di terra di massa, puntare sulla quantità, sarebbe controproducente. L’azione militare ha una sua razionalità etica: un morto in più è peggio di un morto in meno”. Conoscere il sangue per salvare il sangue.