Il presidente russo Vladimir Putin (foto LaPresse)

America svuotata

Prima di ricevere Hollande, Putin saggia la scarsa consistenza della Nato obamiana. Le parole di Merkel

New York. Recep Tayyip Erdogan ha detto mercoledì che non vuole una escalation militare con la Russia dopo che gli F-16 di Ankara hanno abbattuto un bombardiere russo, colpevole di avere invaso lo spazio aereo turco al confine con la Siria: “Stiamo soltanto difendendo i nostri confini”, ha detto il presidente, aggiungendo che nessuno può aspettarsi che la Turchia rimanga in silenzio quando i suoi confini vengono violati. Il primo ministro turco, Ahmet Davutoglu, si è attenuto al canovaccio della riconciliazione diplomatica con la Russia, paese “amico e vicino”. Mosca ha usato un altro registro. Il ministro degli Esteri russo, Sergei Lavrov, ha detto che è stata una “provocazione pianificata” e il suo gabinetto ha smentito le voci su un incontro con l’omologo turco, Mevlüt Cavusoglu, trapelate dopo una conversazione telefonica fra i due. Cavusoglu ha chiesto “più volte” un meeting, ma Lavrov ha rifiutato. Nella formulazione più cauta la Turchia è un oggettivo “complice dei terroristi”, in quella più esplicita è un “finanziatore dello Stato islamico”. “Non intendiamo entrare in guerra con la Turchia” è la dichiarazione più amichevole pronunciata mercoledì da Mosca, contestualmente accompagnata da bombardamenti nell’area di confine e altre manovre di natura bellica.

 

La regione è controllata dai ribelli turcomanni, che non sono fra i primi né fra i più motivati gruppi anti Assad, ma lo sono diventati nel tempo grazie alla generosa assistenza di Erdogan. La Difesa di Mosca ha deciso di spostare la più potente batteria missilistica a disposizione nella base siriana di Latakia. Vladimir Putin ha promesso che la Russia reagirà “in un modo o nell’altro” alla “pugnalata alle spalle” dei turchi, resa pure più dolorosa dall’uccisione a terra di uno dei due piloti e dagli attacchi agli elicotteri delle forze speciali intervenuti, e si sta attrezzando per farlo. Il secondo pilota è stato trovato vivo e portato nell’ospedale di una base russa. Tutto questo avviene mentre il broker di una trasversale coalizione anti Stato islamico, François Hollande, giovedì vola a Mosca per chiedere all’inevitabile Putin di unire le forze contro il Califfato. Mercoledì il presidente francese ha incontrato a Parigi la cancelliera tedesca Angela Merkel, la quale ha riconosciuto che “non bastano le parole, servono mezzi militari” per battere il califfo, e ha offerto il sostegno tedesco all’esercito francese in Mali. Giovedì mattina, dopo un incontro con il premier italiano Matteo Renzi, Hollande metterà sul tavolo del Cremlino le condizioni per un’alleanza, valutate e concordate martedì alla Casa Bianca: la Russia deve concentrare i suoi sforzi militari contro lo Stato islamico e lavorare alla cacciata di Assad. L’incidente aereo fra Turchia e Russia ha però introdotto nella complicata equazione che Hollande sta tentando di risolvere una nuova variabile, che ha a che fare con il ruolo e la volontà della Nato, e soprattutto con quello del principale azionista del consorzio atlantico, gli Stati Uniti.

 

Hollande, che pure ha parlato di “atto di guerra”, fin qui non si è appellato all’articolo 5 del trattato Nato – quello della “difesa collettiva: un attacco a un paese membro è un attacco all’alleanza intera, anche se l’aggressione arriva da un’entità non statale – ma ha preferito invocare l’anodino trattato di Lisbona, per non chiudere immediatamente il canale di dialogo con la Russia. Dal summit di emergenza convocato dalla Turchia dopo lo scontro aereo è venuta una generica presa di posizione in favore della sovranità turca e tanti inviti alla de-escalation, e i media di stato russi si sono prodigati per far notare che la dichiarazione del segretario generale, Jens Stoltenberg, non era condivisa da tutti i membri. Al tavolo ci sono state anche prese di posizione critiche nei confronti della reazione turca. L’articolo 5 non è stato nemmeno preso in considerazione. Il Pentagono ha deciso di declassare l’incidente a “problema fra due governi”, obliterando la portata globale dello scontro. Putin non sta consumando una zuffa con un avversario regionale, la Turchia che vuole rovesciare Assad, sta punzecchiando la Nato per saggiarne la consistenza. E quello che trova è materiale piuttosto friabile. Al netto delle versioni contrastanti sulle circostanze specifiche intorno al jet abbattuto nei cieli turco-siriani, quel che è certo è che non si è trattato esattamente di una “pugnalata alle spalle”.

 

[**Video_box_2**]All’inizio di ottobre gli aerei russi hanno violato due volte lo spazio aereo turco, provocando la reazione di Ankara e le proteste della Nato e di Washington. L’aviazione turca ha anche abbattuto un drone nei suoi cieli, un velivolo chiaramente russo, anche se Mosca non lo ha mai confermato. La Turchia ha avvertito in tutti i modi i russi sul rispetto dei confini, l’esercito ha da mesi gli occhi puntati nei cieli dell’area in attesa di un’invasione, anche minima, e gli aerei russi volano costantemente vicini al confine. Se anche, come dice il Cremlino, i piloti del Ru-24 non avessero ricevuto dieci avvertimenti prima di finire sotto il fuoco degli F-16, difficilmente si è trattato di un colpo a sorpresa. Se i turchi “premeditavano” un attacco, i russi non hanno fatto molto per evitarlo. La reazione della Nato, e in particolare di Washington, di fronte a un incidente prevedibile colpisce per la volontà di disimpegno, per l’atteggiamento ritirista che testimonia e per l’essere ostaggio di chi ha riempito in medio oriente il vuoto geopolitico lasciato dall’America di Obama. Gli attacchi di Parigi, ha scritto lo storico neocon Robert Kagan, hanno messo in crisi una delle premesse implicite nella politica estera di Obama: “Gli Stati Uniti non hanno interessi nella regione tali da giustificare un impegno rinnovato. Le crisi nel medio oriente possono essere mantenute e contenute a livello regionale”.

 

Obama ha rigettato perfino l’idea che quello del medio oriente è un intricato viluppo di guerre per procura, e nemmeno un attacco diretto al cuore dell’Europa lo ha convinto che si tratta di una “crisi dell’ordine mondiale”, come scrive Kagan, non di una tragica giustapposizione di conflitti di respiro regionale. Un atteggiamento di diniego che collima perfettamente con la sua volontà di sedare e “localizzare” l’episodio al confine con la Siria, lui che tratta la Turchia innanzitutto come uno stato sovrano e alleato con il suo diritto di difendersi, poi come un membro del corpo unico dell’alleanza atlantica. Per la Russia di Putin, tuttavia, quello dei blocchi e delle sfere d’influenza è ancora il prisma geopolitico attraverso cui leggere la situazione. Il sistema di alleanze è preponderante rispetto a quello dei singoli stati. La stessa annessione della Crimea è per Putin una naturale reazione al processo di espansione della Nato verso est dopo la fine della Guerra fredda: prima sono arrivate la Polonia, l’Ungheria e la Repubblica Ceca, poi i paesi baltici e la Bulgaria, infine sono entrate nel mirino Georgia e Ucraina, e in entrambi i casi è finita con i carri armati. Anche se non scatenerà una escalation militare immediata, lo scontro fra Turchia e Russia fornisce una prova indiretta del grande ritiro americano.