Militari italiani (foto LaPresse)

Ecco il piano per intervenire in Libia

Claudio Cerasa
Droni e caccia. La prima via resta sempre quella dell’accordo diplomatico ma la novità è che se entro ottobre non ci sarà un’intesa in Libia scatterà l’azione dal cielo come in Siria. Dettagli e storie dal “mondo di nessuno”.

Il tepore che ci coccola nelle ultime settimane dell’estate ci porta in modo quasi naturale a concentrarci con una certa frequenza sulle notizie a basso impatto emotivo e ci spinge spesso a rinviare a dopo l’estate alcuni ragionamenti politicamente e culturalmente cruciali che a occhio e croce potrebbero contare persino più di un appassionante emendamento sulle riforme costituzionali. E’ estate, si sa, tutto si dimentica alla svelta, e anche le parole dure come le pietre (“Stiamo vivendo la Terza guerra mondiale”) vengono digerite con facilità, più o meno come una gigantesca fetta di cocomero sotto il nostro ombrellone. Eppure, quello che sta succedendo a pochi chilometri dall’Italia, dall’altra parte del Mediterraneo, sul bagnasciuga della Libia, a osservarlo con attenzione, e senza farsi rimbambire dal sole, vale ben più di una riforma sulla tassazione della prima casa o di un salvataggio della Grecia. E da molti punti di vista coincide con il riflesso perfetto delle contraddizioni, dei limiti, delle paure e delle opportunità future non solo dell’Italia ma in un certo senso di tutta l’Europa e di tutto l’occidente.

 

La Libia non è solo immigrazione, non è solo Stato islamico, non è solo sicurezza, non è solo interesse nazionale ma è un grande buco nero in cui, giusto a un tiro di schioppo dalle nostre vacanze, si può osservare come il disordine mondiale sia una condizione stabile di un nuovo ordine in cui – come da perfetta e tragica profezia di Charles Kupchan, studioso del Council on Foreign Relations – esiste ormai “un mondo di nessuno” orfano dell’egemonia americana, dove il vecchio interventismo democratico ha lasciato tragicamente il posto a un improduttivo cinismo tattico che per la prima volta da molto tempo a questa parte fa scorrere sangue sullo stesso stretto in cui si affaccia il nostro paese. E dunque, oggi più che mai, la domanda è d’obbligo ed è quanto mai opportuna: che cosa diavolo fare? E soprattutto: se c’è davvero qualcosa che si può fare, chi la può fare, e chi la può guidare? I problemi che riguardano direttamente il nostro paese sono due e sono naturalmente collegati: l’instabilità che si è accentuata dopo il goffo intervento militare del 2011 contro Gheddafi, sommata alla strategia mortifera del leading from behind obamiano, ha contribuito a trasformare la Libia in una sacca di potenziali terroristi affiliati allo Stato islamico e in una grande portaerei dell’immigrazione puntata verso l’Europa. In entrambi i casi, come spiega da mesi su questo giornale il nostro Daniele Raineri, il che fare parte da una premessa che nonostante l’ottimismo europeo oggi sembra terribilmente difficile: la nascita di un governo di unità nazionale tra il governo filo islamista di Tripoli e quello più moderato di Tobruk. Per quanto riguarda il contrasto all’immigrazione, l’unità nazionale libica è vitale per una ragione molto semplice: nel Mediterraneo oggi esistono sette mezzi navali, compresi sottomarini, dodici aerei, più la portaerei Cavour, che sono attrezzate per intercettare le navi dei trafficanti, sequestrarle e metterle fuori uso. Ma fino a che non ci sarà da parte delle autorità libiche una precisa ed esplicita volontà di collaborazione – e fino a che non verrà adottata una risoluzione da parte del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite – sarà impossibile mettere il naso nelle acque internazionali e sarà dunque impossibile instaurare una collaborazione fruttifera con le forze libiche: sia per combattere le organizzazioni criminali sia per contrastare in modo sistematico il traffico di esseri umani.

 

Il passaggio più importante però che viene rimandato di giorno in giorno dal progressivo allontanamento tra i due governi libici coincide con l’altra metà della domanda di cui sopra: che fare in Libia contro la crescita progressiva degli insediamenti dello Stato islamico? E poi: è possibile oppure no una grande spedizione internazionale per occupare il suolo libico e contenere l’espansione degli islamisti? Chiunque abbia un minimo di conoscenza del territorio libico sa perfettamente che pur essendo l’intervento immediato la strada forse più efficace per contenere la crescita islamista alle porte dell’Europa, con l’America nascosta dietro il dito dell’obamismo oggi non esistono le condizioni militari e politiche per un intervento di occupazione in uno stato che è grande sei volte l’Italia e per il quale servirebbero, per evitare una missione suicida, circa il doppio dei militari impiegati in Afghanistan: tra i 300 mila e i 350 mila uomini. E dunque, ancora, che fare? La strada diplomatica, come raccontano e confermano diverse fonti internazionali sentite dal Foglio, resta la via prioritaria. Ma a differenza di qualche mese fa, tutti i principali attori della trattativa diplomatica ammettono che Egitto, Turchia, Marocco e Tunisia non sono nelle condizioni per contribuire in tempi brevi all’avvicinamento delle parti. E dunque, ancora, che fare? Fino a quando si può continuare così? Fino a quando si potrà consentire di non fare terra bruciata attorno agli islamisti? Quanto si può sopportare di osservare un nostro vicino di casa che giorno dopo giorno fa crescere nella sua pancia dei virus che alla lunga potrebbero diventare letali non solo per l’Italia ma anche per il nostro continente? Detto in modo più brutale: ci sono alternative concrete al fatto che la Libia si trasformi definitivamente in una sorta di Somalia a un tiro di schioppo dalle nostre vacanze?

 

La novità delle ultime ore, secondo quanto risulta al Foglio, è che la comunità internazionale ha scelto, per evitare di consegnare del tutto la Tripolitania all’estremismo islamista , di non cedere alle pressioni di chi chiedeva di intervenire in Libia armando solo uno dei due fronti, ovvero Tobruk. E la linea che che si sta concretizzando tra i governi più coinvolti nel dossier libico è quella di premere il pulsante numero due: concedere ancora uno o due mesi al massimo per raggiungere un accordo tra i governi libici e non aspettare oltre ottobre per passare a una linea diversa. La stessa linea scelta negli ultimi mesi per combattere in Siria lo Stato islamico: schierare la coalizione antiterrorismo formata da 51 stati contro le milizie islamiste in Libia e bombardare gli obiettivi sensibili non con i “boots on the ground” ma attraverso l’uso di droni e di cacciabombardieri – e attraverso una serie di azioni di containment che possono portare anche al rifornimento di armi per le truppe di terra che potrebbero essere coinvolte una volta scattato il piano anti terrore. Non esiste ancora un piano concreto di azione, anche se ci si sta già lavorando, ma esiste invece una mappatura completa degli obiettivi che dovrebbero essere colpiti in caso di attacco, elaborata da cinque gruppi di lavoro attivati da alcuni mesi all’interno della coalizione anti Isis a cui hanno partecipato delegati diplomatici e militari di Stati Uniti, Arabia Saudita, Australia, Bahrein, Bulgaria, Canada, Danimarca, Emirati Arabi Uniti, Francia, Georgia, Germania, Giappone, Iraq, Italia, Giordania, Kuwait, Lettonia, Libano, Nuova Zelanda, Paesi Bassi, Panama, Polonia, Qatar, Spagna, Turchia e Regno Unito.

 

[**Video_box_2**]L’intervento da lontano, dal cielo, sarebbe qualcosa in più naturalmente rispetto all’immobilismo di oggi. Ma come si sa, e come hanno dimostrato gli interventi in Siria e in Iraq, bombardamenti e mini incursioni non possono produrre una Libia stabile – ne possono al massimo contenere i pericoli – e soprattutto non aiutano a risolvere quello che oggi è il tema centrale della nostra èra. Tema intorno al quale andrebbe costruita una crociata non solo culturale: l’occidente senza l’America non esiste, il multilateralismo à la carte è efficace come una pistola ad acqua, l’autodeterminazione dei popoli è solo un mantra utile per arricchire il vocabolario del politicamente corretto e nel nuovo grande disordine mondiale, dove tutti gli attori sono dei vagoni senza locomotiva, esiste ogni giorno il rischio di deragliare in modo fatale. Ha ragione dunque il nostro presidente della Repubblica a dire che anche l’Italia è al centro di un conflitto così grande che non può che considerarsi mondiale. Ma prima o poi, accanto a questa evidenza lapalissiana, toccherà dire la verità: di fronte a quel conflitto, dove ovviamente sempre in nome del politicamente corretto la parola “islam” viene sussurrata piccola piccola, nascosta, come se fosse un espressione marginale del conflitto, l’Italia è in mutande. E fino a quando anche il nostro paese non farà qualcosa per evitare che, in assenza dell’America, l’Europa rimanga da una semplice espressione geografica, il rischio di cadere giù dalle rotaie sarà sempre più verosimile. Specie ora che il deragliamento riguarda un binario che si trova giusto a un tiro di schioppo dalle nostre vacanze.

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.