Il problema in Italia non è la ristretta élite che ci comanda, ma tutti gli altri
Secondo uno studio, il 4 per cento della popolazione controlla la società italiana; il 66,2 per cento è composto dagli “esclusi”, e in parte auto-esclusi, che hanno sfiducia nella politica e, ancor di più, nel mondo esterno. La stessa ricerca scopre che l’istruzione è il fattore che spacca più degli altri l’Italia.
Il 4 per cento della popolazione controlla la società italiana, con due ali più ampie, il 12,2 per cento di lavoratori autonomi, commercianti, professionisti, che non si interessano dei fatti collettivi, ma vivono bene così; e il 17,4 per cento che vive nella/della pubblica amministrazione (istruzione, sanità) che si sente appagato dalla sicurezza del posto di lavoro. Resta il 66,2 per cento di “esclusi”, e in parte auto-esclusi, che hanno sfiducia nella politica e, ancor di più, nel mondo esterno. È questo l’esito dello studio “La Società del 4 per cento” presentata a Roma da LibertàEguale, il gruppo liberaldemocratico della sinistra italiana (qui il testo e qui il video).
Che ci sia in Italia una élite è una non-notizia, si direbbe, perché ogni paese, dai migliori ai peggiori, ha un gruppo, più o meno ristretto, che guida il paese. Il dato anomalo, semmai è la sua ristrettezza quantitativa; ma ancora più anomalo è il modo in cui difende i suoi bastioni dagli assalti teoricamente possibili del resto della società. Infatti, nel 66,2 per cento c’è una componente importante, le persone in cerca di prima occupazione, in gran parte laureati, che ambirebbe a passare dalla marginalità al pieno coinvolgimento. E non ci riesce, perché il 4 per cento ha eretto muri quasi invalicabili, un po’ grazie alle corporazioni, un po’ perché regna grazie a un fattore diffuso e molecolare, perciò molto efficace, come la qualità dell’istruzione.
La ricerca mette insieme 54mila interviste su moltissimi aspetti della vita quotidiana, (dall’alimentazione alla politica, dai consumi culturali a internet) e cerca le correlazioni tra un elemento e l’altro. E cosa scopre? Che proprio l’istruzione è il fattore che spacca più degli altri l’Italia. Soprattutto la sua qualità. Senza istruzione sufficiente e competenze adeguate non si accede ai posti di comando; senza l’istruzione non si accede al mondo digitale; senza l’istruzione di qualità non si riesce neppure a “consumare” cultura, perché teatro, cinema, giornali e tutto il resto diventano inaccessibili. Ma il punto non è questo: il punto è che la scuola è piatta e non fa più selezione, anzi la selezione la fa chi può permettersi di studiare all’estero e comunque avere il supporto familiare, mentre il resto del mondo deve accontentarsi degli standard che trova. Se la scuola non fa la selezione, allora avviene al suo esterno, cioè nelle famiglie. Di qui l’elemento familistico, per cui buona parte dei farmacisti sono figli di farmacisti e di architetti (che lavorano) sono figli di architetti.
Il resto del blocco sociale si tiene con le regole delle corporazioni che sono passate da garanzia per il pubblico, a garanzia degli interni (gli inclusi) contro gli esterni. La cittadella del 4 per cento si difende anche perché dal resto del mondo non arriva la potenza della competenza, che non può che arrivare dalla scuola, la quale non selezionando più, non è il fattore discriminante della classe dirigente, e cede questo compito alla società civile, cioè alle famiglie. Il circolo così si chiude.
[**Video_box_2**]Se questa consapevolezza fosse diffusa, il gioco per gli innovatori sarebbe facile, ma non è così: la domanda che arriva dal 66,2 per cento è fondamentalmente una domanda di protezione, sulle pensioni, sulla certezza dell’impiego, persino sulla non centralità del merito. È in sostanza un’auto-narrazione minimalista, anche se ci sono opposte visioni tra giovani da un lato e pensionati/casalinghe dall’altro. Chi oggi gioca politicamente la carta dell’offerta di protezione, di difesa, sembra trovare più ascolto, ma una contro-narrazione che attacchi i nodi strutturali (come la scuola, ad esempio) che perpetuano la marginalità di strati così ampi della popolazione (soprattutto al sud) è possibile, ed è già in campo. La differenza è tra rompere le catene e renderle più accomodanti. Sono le due opzioni politiche che cominciano a diventare distintive. Cominciano.
L'editoriale del direttore