Foto LaPresse

Domanda: è il giudizio lungo una vita, o la vita che dura un giudizio?

Guido Vitiello
Sembra Kafka, ma è la realtà del sistema penale italiano. Esiste un’inclinazione naturale del processo a dilagare, a espandersi in lunghezza, larghezza, profondità e soprattutto nel tempo, dimensione che la nostra fisica giuridica tende a ignorare, come dimostra il surreale allungamento della prescrizione.

Una pagina di Milan Kundera dai “Testamenti traditi” è servita a Giovanni Fiandaca per illustrare, sul Foglio di giovedì, l’invincibile vocazione espansionista del processo penale. Che dovrebbe concentrarsi sui fatti, ma finisce per mettere sotto giudizio gli uomini nella loro interezza; che dovrebbe restare nel recinto del diritto, ma pascola abusivamente nei campi della morale, della sociologia o della politica. “Il processo celebrato dal tribunale”, scriveva Kundera commentando Kafka, “è sempre assoluto; cioè non riguarda un atto isolato (furto, frode, violenza carnale) ma l’intera personalità dell’accusato”. A esso, si può aggiungere, corrisponde la pena assoluta del carcere, che per colpire un reato specifico sequestra tutta la persona del reo.

 

Esiste dunque un’inclinazione naturale del processo a dilagare, a espandersi in lunghezza, larghezza, profondità e soprattutto nel tempo, dimensione che la nostra fisica giuridica tende a ignorare, come dimostra il surreale allungamento della prescrizione. “Il processo è assoluto anche in questo”, aggiungeva Kundera nella stessa pagina, “e cioè che travalica i limiti della vita dell’accusato”.

 

Il caso ha voluto che, nello stesso giorno in cui Fiandaca rievocava questo commento a Kafka, il Fatto Quotidiano desse conto dell’intervento dell’avvocato Massimo Krogh, difensore di Nicola Mancino, nell’ultima udienza del processo di Palermo sulla trattativa: “Il mio assistito sta vivendo un momento di grande sofferenza fisica e psichica: teme di finire prima che finisca il processo”. Mancino ha più di ottant’anni, ma non meno angosciose furono due anni fa le parole di Ottaviano Del Turco, ammalato di tumore, che dopo la condanna in primo grado chiese al suo medico “cinque anni di vita per dimostrare la mia innocenza”.

 

Sono i corollari del processo assoluto e infinito. Dev’esserci un punto in cui per l’imputato, specie per l’imputato di lungo corso, per l’eterno imputato che è figura così comune in Italia, il processo diventa la forma stessa della vita; in cui la liturgia della procedura s’impone ai suoi giorni fino a scalzare la liturgia feriale della quotidianità. L’imputato è costretto a calarsi tutto nella sua condizione, a farne una seconda natura, quasi avesse contratto una malattia cronica. Vedere la fine del processo può diventare allora lo scopo di tutta un’esistenza a cui il processo stesso ha imposto una trama narrativa, minacciando di lasciarla incompiuta.

 

[**Video_box_2**]Anche questo è prefigurato nel “Processo” di Kafka, e precisamente nelle pagine in cui Josef K. chiede consiglio a Titorelli, il pittore del tribunale. L’ipotesi di un’assoluzione reale non va neppure tenuta in conto, gli dice Titorelli. Restano due vie, l’assoluzione apparente e il rinvio. Nel rinvio, “il processo non termina mai, ma l’accusato è sicuro di non essere colpito da una sentenza, è come se fosse libero”. Il veleno è in quel “come se”; perché, aggiunge subito il pittore, in realtà l’accusato non è mai libero, e l’assillo del giudizio sarà con lui fino a che muore.

 

Immagino che molti imputati si riconosceranno in questa pagina più che nella sorte finale del protagonista. Perché per Josef K. arrivano, in ultimo, la sentenza e l’esecuzione per mano di due signori in redingote e cilindro che gli piantano un coltello da macellaio nel cuore. “Gli parve che la sua vergogna gli sarebbe sopravvissuta” è la frase che chiude il romanzo. Più terribile ancora è che a sopravvivere all’imputato non sia la vergogna, ma il suo stesso processo.
Guido Vitiello

Di più su questi argomenti: