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A Gaza in fondo è questione di sovraffollamento e compresenza

Adriano Sofri

Non è un'occasione straordinaria quella di gioire di un passaggio provocato da una cupola di farabutti? Se vuoi il premio per la pace, interrompi la guerra, giusto un giorno prima. Si può dire: Nobel per il cessate il fuoco

Questo non è un pezzo su galere e detenuti, ma sui piedi liberi. Mi ha messo di buonumore la definizione di “sovraffollamento” sulla Treccani: “Eccessiva presenza di folla in un luogo circoscritto: il consueto sovraffollamento del cinema il sabato sera, o delle spiagge la domenica”. Il Dap (Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria) ha appena pubblicato gli ultimi dati, nel Lazio i detenuti sono più di 150 per 100 posti “teorici”, a Regina Coeli più di 180. Allegria, infatti. Ora, ogni tanto arriva anche fuori la notizia di violenze fra detenuti che condividono una cella, i letti a castello, lo spazio di mezzo che non lascia mettere piede a terra più di uno alla volta, il cesso accanto al fornellino da campeggio. Si trovano a respirare la non-aria comune (l’aria viene una o due ore al giorno, e si chiama così, ora d’aria) e possono essere un ragazzo nigeriano e un anziano della Brianza, dei marocchini e degli algerini reciprocamente invisi, e così via: le persone più divise da età, origine, cultura, condizione personale. Se la loro oltraggiosa prossimità esplode in litigi, risse, violenze, è naturale interpretarle come connaturate alla loro situazione di delinquenti ufficiali o in attesa di ufficializzazione. Però esistono, come è noto, le contese di pianerottolo. “Vicini di casa” è un’espressione delle più ambigue. Fa immaginare amicizia o cortesia, prestiti di aglio o grattugie, oppure insofferenza e ostilità, accoltellamenti. Questione di spazio.


La relazione fra Israele e Palestina è anche affare di sovraffollamento. Vicini che si sanno o si sentono rapinati o minacciati e che covano paura e odio, prepotenza e vendetta. Che sognano di liberare lo spazio forzatamente condiviso dal loro compagno di prigionia o dal loro carceriere. Alcune, alcuni fra loro, dall’una e dall’altra parte, immaginano un buon vicinato e si adoperano per favorirlo. Hanno la peggio. Lezione su cui riflettere, non per rassegnarvisi. Per prendere delle precauzioni, e trovare uno sguardo più lungo. Com’erano diventati incautamente vicini, vicinissimi, i partecipanti al rave del 7 ottobre e gli inquilini oltre la rete. Ieri gli uni e gli altri, non tutti, certo, facevano festa, tristemente o felicemente, dall’una e dall’altra parte. 


Forse non si troverà niente da fare. Si richiamerà la natura umana, per ribadire che non è umana ma belluina, e che lo spazio non è condivisibile. Che bisogna moltiplicare filo spinato, muri, sentinelle, prigioni. La deportazione, l’altra faccia della migrazione, e perfino della abitazione. C’è un sovraffollamento di pensieri, giudizi, dissensi, insulti, rotture, modi di venire alle parole invece che, o in attesa di, venire alle mani. La rete è la smisurata accoglienza, anzi la incoraggiante fautrice. Permette di prendere posizione, di arruolarsi domesticamente. Di rinviare sine die il tempo di chiedersi, scesa la sera, al momento di spegnere, se nel sovraffollamento di sentimenti da cui si è oppressi o esaltati si possa fare spazio a una compresenza, una convivenza. Di palestinesi e israeliani dentro di sé, per così dire. O se dentro di sé lo spazio disponibile sia ancora più angusto, soffocante e accanito che quello che va dal Mediterraneo al Giordano e ritorno. 


Se si possa, e si voglia, dalla provvisoria comodità in cui ci si trova, senza dimenticare niente, rallegrarsi della festa di ieri degli uni e degli altri. Non è un’occasione straordinaria quella di gioire di un passaggio provocato da una cupola di farabutti? Che il premio per la pace accantoni lo scrupolo sulla differenza fra la pace e la guerra? Che si superi la vertenza sui motti, se vuoi la pace prepara la pace o prepara la guerra? Se vuoi il premio per la pace, interrompi la guerra, giusto un giorno prima. Coi bombardamenti in corso: è tutt’altra cosa crepare sotto un bombardamento pressoché scaduto. Amari ragionamenti, amarissimi, solo le vittorie sono dolci, ma sono dolci solo ai vincitori, e preparano la rivincita. Alfred Nobel fu un grande industriale degli armamenti, un geniale scienziato, l’inventore di dinamite gelignite e altre centinaia di brevetti, un formidabile pentito. Decise che la quinta dotazione del suo patrimonio, quella lasciata alla scelta del comitato norvegese, andasse “alla persona che più si sia prodigata o abbia realizzato il miglior lavoro ai fini della fraternità tra le nazioni, per l’abolizione o la riduzione di eserciti permanenti e per la formazione e l’incremento di congressi per la pace”. La formula semplificata dice il Nobel per la Pace. Troppa grazia. Si può dire il Nobel per il cessate il fuoco. Non è poco.
 

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