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Chissà cosa direbbe Tocqueville di un presidente che venga eletto in cella

Adriano Sofri

Questa è l'estate giusta per rileggere "La democrazia in America": il suo autore aveva trattato minutamente crisi e degenerazioni di questo modo di vivere in società. Ma non fino al punto di un ex presidente incriminato per cospirazione

L’estate è fatta per leggere i classici, o rileggerli – c’è un piacere peculiare nella rilettura di certi testi, non abbastanza lodata. Succede perfino di leggere un’opera per la prima volta e correre verso la fine pregustando già la seconda volta: circostanza che vale anche per altre cruciali attività. Ma qui non c’entra, volevo solo dire che è il momento di leggere o rileggere la “Democrazia in America” del visconte Alexis de Tocqueville. Quando, il 6 gennaio 2021, assistemmo in diretta all’assalto al Campidoglio, eravamo sì sbigottiti, e ci dicevamo sì che era in corso un tentativo di colpo di stato, ma qualcosa dentro di noi, anche dentro i più scettici e pessimisti di noi, riluttava ad ammettere che fosse proprio così. C’era qualcosa di troppo o di troppo poco, e poi la lunga assuefazione cinematografica vale da vaccinazione e da esorcismo, e poi c’erano anche i morti ma l’inquadratura preferiva il grottesco, lo sciamano di QAnon (scarcerato 4 mesi fa). Gli Stati Uniti “culla della democrazia” – come la presidente del Consiglio italiano ha appena ripetuto nel suo cordialissimo incontro con Biden, perfezionato dall’intervista con la Fox – non potevano essere immaginati alla stregua dei golpe latinoamericani, anche quelli da loro patrocinati, o dei colpi militari africani o asiatici che sono cronaca quotidiana, o di quelli mediterranei riusciti ad Atene e mancati di poco al Viminale. La culla della democrazia può prevedere sue crisi e degenerazioni, e Tocqueville ne aveva trattato minutamente, ma non fino a quel punto.

Fino a ieri. Quando le cronache hanno detto della possibilità che un ex-presidente incriminato per cospirazione, e preferito dalla larghissima maggioranza degli elettori repubblicani come candidato alle prossime elezioni presidenziali, venga eletto, in teoria perfino stando in cella con una condanna a qualche decennio di galera.

Ora, siccome non c’è un vero limite a ciò cui gli umani si rassegnano pur di non morire del tutto, la situazione può essere vista ancora in due modi: come un’apoteosi della democrazia, una sua iperbole realizzata, un estremo episodio dell’obesità americana, oppure come lo sprofondare della democrazia in un pozzo nero nerissimo. Naturalmente, si può immaginare un sentiero stretto che porti a venirne fuori, con una vittoria di Biden o di chi per lui nel novembre 2024, la sconfitta di Trump (Ron DeSantis è fuori corsa, ed è un mostro), e il ripristino di una distanza di sicurezza fra la Casa Bianca e un penitenziario federale. (A proposito, Tocqueville era andato in America a studiare il funzionamento del suo sistema penitenziario).

C’è una guerra nel centro dell’Europa. Ieri i giornali davano notizia delle misure disposte per l’eventualità che Zelensky sia ucciso. (Devono esserci misure analoghe al Cremlino, ma i giornali non ne sanno niente). Gran parte della sorte della guerra dipende dalla previsione sulla tenuta reciproca delle due potenze maggiori che vi sono, ciascuna a suo modo, coinvolte. Putin, in teoria, com’è dell’autocrazia, non ha scadenza, salva la natura o incidenti di strada. Biden ce l’ha, già fissata, al 5 novembre del prossimo anno, e in una competizione come quella. La democrazia – quel modo di vivere in società imperfetto per definizione, e a volte esageratamente difettoso per le circostanze – deve vedersela con più fronti, e non ha più una culla né una casa sicura. Tanto meno l’Europa, che è ancora un albergo a ore. Guardate come le cose ci stanno prendendo la mano. Proprio ieri abbiamo consumato l’intero magazzino di risorse prodotte per un anno. Stiamo già respirando a credito. Viene da trattenere il fiato.

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