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piccola posta

E se ora che è novello Solimano, Erdogan stupisse tutti con una riforma liberale?

Adriano Sofri

Marco Ansaldo in "La marcia turca" scrive che per riportare davvero il paese all’antica grandezza, “il leader dovrebbe immaginare la propria ennesima trasformazione… investendo le forze per diventare una democrazia pienamente liberale". Proprio il contrario di quello che ieri Erdogan ha proclamato

Ero stato sconcertato dall’arrivo del libro di Marco Ansaldo, “La marcia turca. Istanbul crocevia del mondo” (Marsilio). Uscito in questo maggio, alla vigilia di elezioni “storiche” dall’esito ritenuto almeno incerto da quasi tutti, da molti favorevole all’opposizione unita attorno al nome di Kemal Kiliçdaroglu. Un azzardo editoriale. Lo sconcerto era durato fino alle ultime pagine di una lettura affascinante, com’è nello stile dell’autore: che ha scritto sì della grande storia della Turchia e della capitale – la sua città per amore – ma anche e soprattutto di Recep Tayyip Erdogan. A riguardarle ora, le ultime pagine fanno intendere che Ansaldo era dei pochi che alla sconfitta di Erdogan non avevano creduto (in generale, è bene sperare ma meglio non credere nella sconfitta dei cattivi, e la cronaca quotidiana lo ribadisce sadicamente). Soprattutto, Ansaldo puntava su un risultato già acquisito: la Turchia come beneficiaria principale, se non l’unica finora, della guerra d’aggressione russa contro l’Ucraina. E lui, Erdogan, come invadente e abile titolare di quella rendita. Formidabile caso di prevalenza della dialettica psicologica del sultano e dei suoi sudditi fedeli sulle ragioni esauste dell’economia, la lira turca in caduta libera, e ulteriormente sprofondata all’indomani del trionfo, mentre i suoi, i poveracci in prima fila, continuavano a esultare. Se non hanno pane, offrite loro il giuramento di far crepare in galera l’innocente Selahattin Demirtas, e l’elenco sincero o ipocrita degli omaggi di tutti i grandi del mondo, e ne saranno saziati. Offrite l’annuncio del “Secolo turco”. Ansaldo cita l’analista turco-americano Soner Çağaptay, “tutt’altro che compiacente”: “Erdogan potrebbe essere ricordato come Erdogan il Grande, erede di Solimano il Magnifico…”. E scrive che “non esiste paese al mondo, oggi, in grado di avere un’ambizione talmente forte e un’influenza così globale come la Turchia… Che sia Erdogan o un altro, la Repubblica figlia dell’impero ottomano continuerà a essere egemone nel mondo”.

La spietatezza di cui Erdogan fa prova con ogni genere di oppositori è l’altra faccia dello spericolato talento col quale volteggia sulla politica internazionale. Il suo esercito resta il secondo della Nato, dopo gli Stati Uniti. Riesce a mettere gli S-400 comprati sfrontatamente dalla Russia nella base aerea di Incirlik dove aspetta di essere perdonato sotto forma di F-35. Fa dei droni Bayraktar una carta essenziale della sua presa sulla difesa ucraina. Ansaldo naturalmente non rimane a bocca aperta davanti a questo spettacolo di funambolismo dispotico. Dice che per riportare davvero la Turchia all’antica grandezza, fallita l’illusione del rinnovamento islamico, “il leader turco dovrebbe immaginare la propria ennesima trasformazione… investendo tutte le forze nel portare il paese a diventare una democrazia pienamente liberale, dotata non solo di potenza militare ma di un’economia avanzata… La svolta potrebbe essere quella di una mossa dirompente, e però doverosa: l’adozione di una nuova Costituzione liberale”. Proprio il contrario di quello che ieri, nell’euforia del successo, Erdogan ha proclamato: il bando ai “valori occidentali”, merce straniera e avariata, il pilastro della famiglia tradizionale, il disgusto per le aspirazioni lgbtiq, l’estremismo nazionalista e anticurdo, l’impero liberato dalla laicità. Piantato nella Nato, un programma affine e concorrente di quello che Putin si affanna a suggerire al resto del mondo. Chi sopravvivrà, vedrà. 

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