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Il passato fascista inglobato nell'anti-antifascismo indebolisce il senso delle parole

Adriano Sofri

Il proposito di rivalsa fascista si spinse fin dentro gli anni 80. Dopo la parola d’ordine era: “NOI siamo antifascisti, NOI siamo i VERI antifascisti! Non voi!!”

Ricapitoliamo. (Continua a piacermi questo verbo, il suo doppio senso). Il proposito di rivalsa fascista, proprio fascista, nell’Europa mediterranea che ebbe il Portogallo di Salazar e Caetano fino al 1974, la Spagna franchista fino al 1975, la Grecia dei colonnelli dal 1967 (!) al 1974, in Italia si spinse fin dentro gli anni 80. Allora, essere antifascisti volle dire opporsi a quel proposito e alla sua violenza terroristica, e opporsi alle forze che, senza credere a restaurazioni golpiste, se ne servirono per puntellare il loro potere. Già prima, e più decisamente dopo di allora, la questione del passato fascista fu riconfezionata nel programma dell’anti-antifascismo. Non bisognava più attardarsi a dichiararsi fascisti, bastava dichiararsi anti-antifascisti. Ci si appoggiava a delle brillanti battute di spirito, se ne faceva una solenne concezione della storia e della politica, cioè del passato e del futuro. Era un topo meschino ma capace di rosicchiare bene. Finì come doveva finire. Le ideologie erano da tempo morte e insepolte, le discendenze congiunte di fascismo e anti-antifascismo andarono al governo, a lungo da comprimarie, finalmente da titolari piene. Siccome non sempre l’interesse, il calcolo di convenienza, pur evidente, sa imporsi alle vanità e alle abitudini, quella discendenza in una sua larghissima parte riluttò ad adeguare linguaggio e gesti alle cariche conquistate, e continuò a tradirsi, come chi invitato a una prima alla Scala ci vada con un lembo di canottiera sporgente sotto lo smoking. Era un continuo dire e disdire – una sofferenza. Intorno, il vasto e frustrato pubblico degli sconfitti non faceva che esigere: “Ancora uno sforzo! Ancora una parola!”. C’era qualcosa di infantile, come sempre nella politica. E’ infantile chiedere ancora un’ultima parola – la penultima – sperando che l’altro non la dica. E’ infantile rifiutarsi di dire qualunque parola, quando il dado è tratto, e ormai si sa che le parole non cambieranno la sostanza. Naturalmente, le parole contano, ma quando sono un passo verso la sostanza. Non quando le si appiccicano dietro, come barattoli alla limousine nuziale. I riluttanti ebbero un’improvvisa illuminazione: col piccolo, piccolissimo – bastava provare – sacrificio del proprio orgoglio infantile, potevano dichiararsi “antifascisti”, esclamarsi “antifascisti!”. Con un accorgimento, il più facile: dirlo forte, prendersi l’intero banco, giocare l’esclusione alla rovescia. La parola d’ordine ora era: “NOI siamo antifascisti, NOI siamo i VERI antifascisti! Non voi!!”.

25 aprile 2023, il primo 25 aprile del governo di vera destra: “Perché non possiamo non dirci antifascisti, perché non potete dirvi antifascisti!”. Forse sarà ricordato così. Un po’ divisivo, dite?

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