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Di coloro di cui non puoi parlare se non male, meglio tacere. Una provocazione

Adriano Sofri

Tra gusto del chiacchiericcio e intercettazioni penalmente irrilevanti, ma che bastano a rovinare affetti, ci si può chiedere se tutto ciò consigli di mordersi la lingua, astenendosi da licenze innocenti destinate a essere auscultate malignamente

Ieri ho ricevuto uno scritto del mio amico e maestro Roberto Barni, che maneggia pennelli, matite, spatole e scalpelli, dal quale estraggo una frase memorabile: “Con un lapis si fa il solletico al nostro io che si mette a ridere”. Desidero farvene partecipi.

Ieri ho riaperto un vecchio classico, il Léon Poliakov della “Causalità diabolica. Saggio sull’origine delle persecuzioni” (1980, nell’edizione francese). La breve introduzione evoca la “visione poliziesca della storia”, una denominazione antecedente del complottismo. Poliakov rintraccia l’origine dell’idea di cospirazione, e segnala il ricorso di lingue diverse all’espressione di “parlare dietro, parlare alle spalle di qualcuno”. Ricorda che “dei cattivi pensieri sonnecchiano nel cuore di ciascuno, e che tutti abbiamo qualcosa da nascondere o da tacere”. Basta pensare, dice, a un fatto banale: “Quasi sempre, noi parliamo di un’altra persona, in sua assenza, diversamente che quando è presente”, e da questa cautela ordinaria può prendere l’avvio un intrigo.

Intrighi a parte, fermiamoci invece alle circostanze in cui quel meccanismo banale si svolge in tutta innocenza (o quasi tutta, l’innocenza non è mai intera). E’ la questione famigerata delle intercettazioni telefoniche, che per questo sono così ghiotte. Al telefono, parlando a tu per tu con un interlocutore o un’interlocutrice fidata, è del tutto usuale pronunciare alla leggera giudizi che, ascoltati, o peggio letti, da estranei, suonano offensivi, sprezzanti, ostili, malevoli, e invece davano reciprocamente per scontata un’interpretazione affettuosa, scherzosa, ironica, e comunque benevola. Riferiti dalle cronache – il dovere di cronaca può essere un gran brutto alibi – simili scambi non hanno di norma alcun rilievo giudiziario, ma possono bastare a rovinare affetti, a insinuare sospetti, ad avvelenare vite. E’ quello che il Papa Francesco chiama “chiacchiericcio” e denuncia insistentemente come micidiale – la Curia dev’essere una gran scuola di “parlare dietro”.

Ci si può chiedere se tutto ciò consigli di mordersi la lingua. Di tenere a freno il proprio linguaggio, astenendosi da licenze innocenti destinate a essere auscultate malignamente. Un po’ succede ai malviventi che imparano (dovrebbero imparare) a vivere immaginando che ci sia sempre, in qualunque luogo e momento della loro esistenza, una microspia pronta ad ascoltarli, vederli, registrarli, filmarli – fotterli. L’occhio e l’orecchio onnipresente che un tempo erano attributi del Signore (o della mamma). Ma quando non si tratti di malviventi e malintenzionati, quando si tratti della serena naturalezza con cui ciascuno di noi sa, crede, di poter parlare a un suo caro di una sua cara, a un’amica di un amico comune, la raccomandazione di tenere un linguaggio castigato non impoverirebbe forse la vita? Non la renderebbe ipocrita, insincera, artificiosa?

La cronaca, né nera né giudiziaria, di questi giorni ha offerto nuovi, deliberatamente piccanti esempi dell’eterno “parlare alle spalle”. Disgustosi, certo. E sono proprio pettegolezzi all’antica, passati da orecchio a orecchio, maldicenze cattive da compari (da compari, dico, perché si pretendeva di dire “da comari”). I social media sono a loro volta un paradossale modo di “parlare alle spalle” – sparlare – nel momento stesso in cui lo si fa in una pubblica piazza sia pur virtuale (in chi lo fa anonimamente c’è un alto grado di vigliaccheria in più). Ma far proprio il principio di non parlare mai di qualcuna o di qualcuno, in sua assenza, diversamente da come se ne parlerebbe in sua presenza, farebbe perdere al gusto della conversazione e della vita qualcosa di prezioso. Piuttosto, si potrebbe sforzarsi di ricorrere all’opposto principio di Wittgenstein, appena corretto: di coloro di cui non puoi parlare se non male, meglio tacere.

(P.s. Ma allora, che cosa sarebbe della nostra vita pubblica e dei suoi “organi di informazione”?).

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