Stefan Zweig (Wikipedia) 

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Ammirerei un russo che pronunciasse le parole di Zweig

Adriano Sofri

Nella primavera del 1941 a New York, lo scrittore tedesco disse: "La mia lingua madre, le parole che pronuncio, sono quelle che vengono distorte e pervertite da questa macchina che sta distruggendo l’umanità"

Ieri Repubblica anticipava una parte dell’intervista di George Prochnik a Wes Anderson, in una raccolta di scritti di Stefan Zweig “La società delle chiavi incrociate”, in uscita per Jouvence. Wes Anderson è il famoso regista (I Tenenbaum, Grand Budapest Hotel...) e Prochnik è il biografo di Zweig (“L’esilio impossibile”, Il Saggiatore 2018). Prochnik ricorda un episodio: “Ci fu un momento straordinario nella vita di Zweig, nella primavera del 1941, mentre si trovava a New York. Il PEN in Exile si era appena costituito ed era stato organizzato un enorme banchetto inaugurale al Biltmore Hotel. Dovevano essere presenti circa mille scrittori. Molte persone tennero discorsi, e le parole di Zweig risultarono quelle che ottennero maggior risonanza. Con una mossa del tutto controintuitiva, Zweig aprì dicendo: ‘Sono qui per chiedere scusa a tutti voi. Sono qui a vergognarmi perché la mia è la lingua in cui il mondo viene distrutto. La mia lingua madre, le parole che pronuncio, sono quelle che vengono distorte e pervertite da questa macchina che sta distruggendo l’umanità’”. 

Io soffrirei oggi se un cittadino o una cittadina ucraina si rivolgesse così a una russa o un russo: “La tua lingua madre, le parole che pronunci, sono quelle che vengono distorte e pervertite dalla macchina che sta distruggendo, col mio paese, l’umanità”. Ma ammirerei una cittadina o un cittadino russo – non ucraino di madre lingua russa, badate! – che si rivolgesse così all’uditorio ucraino: “La mia lingua, le parole che pronuncio…”. 

Le cose che diciamo hanno a che fare in modo decisivo con chi siamo, dove stiamo, e a chi stiamo parlando.

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