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Quella di Nicolai Lilin non è la vera storia

Adriano Sofri

È uscito giovedì un nuovo libro dello scrittore, "Ucraina. La vera storia". Ricorre l'idea che l'Ucraina sia un arto amputato della grande madre Russia, e ne deriva il sacrificio chirurgico di bombardarlo. Fino all'ultima parte: “Il regime autoritario di Putin è mille volte più democratico”

E’ uscito giovedì un nuovo libro di Nicolai Lilin, Ucraina. La vera storia, e l’ho letto: si fa presto. Senza sorprese, quanto al punto di vista dell’autore, che è noto. Anche senza pregiudizi: non mi importa niente che tutto quello che ha raccontato nei suoi romanzi non sia la sua vera biografia, e tutt’al più mi dispiace che non sia un avanzo di galera, che me lo avrebbe reso più caro. Lilin introduce e conclude il suo testo con una dedica a Oles Busina, scrittore, giornalista, storico, fautore dell’unità imperiale di Russia Bielorussia e Ucraina, assassinato nel 2015, come altri suoi compagni di ideali, da nazionalisti neonazisti rimasti impuniti; e lamenta la distrazione degli intellettuali occidentali verso questi crimini. A volte, come nel caso orribile del massacro di Odessa del 2 maggio 2014, scrive della “mattanza dei rappresentanti della sinistra ucraina” da parte di gruppi neonazisti “durante manifestazioni pacifiche”: che però è falso.

La sua posizione è esplicita fin dalle prime pagine (di 123): dal 2014 di Euromaidan definito senz’altro come il colpo di stato americano, dall’evocazione della consonanza con Giulietto Chiesa e della profezia sulla guerra fra Russia di Putin e occidente, condivisa peraltro da osservatori di tutt’altra sponda, e in larga parte autoadempiuta. Dunque è scontato, ed è poco interessante, che io dissenta dall’intero libro: ho però l’impressione che l’intero libro sia una frettolosa ricucitura di pezzi indipendenti l’uno dall’altro e risalenti in gran parte al periodo immediatamente successivo al 2014, appena aggiornati da qualche inserto. Frettolosamente, direi, e senza una paginetta iniziale o finale che lo dichiari, e con qualche errore di stampa venialissimo salvo quello sfortunato che tramuta il monachesimo basiliano della ucraina Uman’ in brasiliano (p. 32). Della guerra in corso, o almeno del suo capitolo successivo al 24 febbraio – che segna, se proprio non si voglia dire un salto di qualità, almeno di una enorme quantità – nel libro c’è pochissimo, se non una requisitoria affannata nelle ultime pagine. Lilin spiegherebbe che il suo proposito è appunto “la vera storia”, cioè il racconto dell’inesistenza dell’Ucraina fuori dalle sue radici e dalla sua filiazione russa, e della sua artificiosa e recentissima invenzione a opera soprattutto dei vicini polacchi (e a loro spese) e di una consorteria di intellettuali privi di legami col popolo. Ma il racconto è, mi pare, un guazzabuglio in cui il contesto e la stessa cronologia sono ignorati in favore di un viavai di citazioni tese a confortare l’infondatezza delle pretese nazionali dei “filoucraini” – che Lilin così oppone ai “filorussi”. (Lilin scrive Malorossia, e Velicorossia – per Grande Russia). Lenin è promosso a sincero campione dell’autodeterminazione dei popoli. L’holodomor è ridotto a un capitolo della carestia che ha colpito l’intero territorio sovietico: “La realizzazione forzata dei nuovi programmi politici che i bolscevichi applicavano con la forza nelle campagne di tutto l’ex Impero russo”. Il rapporto fra persecuzione e risveglio dello spirito nazionale, e nazionalista, è ignorato, così per l’holodomor e la distruzione dell’intelligenza ucraina alla fine degli anni Venti, come per la guerra di oggi e i suoi effetti ottocenteschi ed europeisti. L’Ucraina indipendente dal 1991 è il regno del nazismo militante e del parassitismo degli oligarchi, che ha eclissato quello di Mosca. Una noticina a p. 33 informa che “uno degli obiettivi politici dei nazionalisti ucraini è occupare militarmente la Russia e annientare fisicamente quei russi che loro considerano ‘meticci’, ovvero mischiati con gli asiatici”. 

L’inno ucraino, spiega Lilin, “Non è ancora morta l’Ucraina”, non è che il calco tardo, 1863, della Marcia di Dombrowski del 1797, divenuta l’inno polacco, “Non è ancora morta la Polonia”, e che chiama “fratelli slavi” i polacchi in spregio dei russi. Ma i percorsi degli irredentismi ottocenteschi sono molto più tortuosi e suggestivi di così. La marcia dedicata a Dombrowski – La mazurka di Dombrowski, o Canto delle legioni polacche in Italia – fu composta a Reggio Emilia, pochi mesi dopo l’adozione del primo tricolore italiano, da Jozef Wybicki, e nel suo testo Polonia e Italia erano unite: “La Polonia non è morta / quando noi viviamo... / Avanti! marcia Dombrowski! / In Polonia dalla terra italiana. / Sotto la tua guida / Alla nazione ci uniremo”. Unione che viene ricambiata negli ultimi versi dell’Inno di Mameli: “Già l’aquila d’Austria le penne ha perdute. / Il sangue d’Italia e il sangue Polacco /    bevé col Cosacco, ma il cor le bruciò”, dove l’impero austroungarico è associato a quello zarista. Incroci della fraternità.

La seconda parte, sull’industria ucraina, è ferma al 2014-’15. La terza e ultima, “Il mito della democrazia ucraina”, è intrepida: “Il regime autoritario di Putin è mille volte più democratico”. 

C’è un argomento ricorrente nel testo, così come nella generalità delle posizioni di chi sostiene che l’Ucraina non esiste se non come un arto amputato della madre russa, e ne deriva il sacrificio chirurgico di bombardarlo. Che l’Ucraina non abbia altre fondamenta se non le “radici russe”, e che pretendendo di fondarsi “sulla differenza dai russi, non fanno che confermare di essere legati saldamente al popolo russo”. Argomento grazioso, che riconduce all’impossibilità di essere antifascisti quando vengano a mancare le radici fasciste… In realtà, l’Ucraina forgiata dal genocidio contro quella di Bandera, forgiata dalla guerra a un’invasione fraterna che ha immerso il battaglione Azov e i suoi tatuaggi nelle catacombe di Mariupol, è tentata di uscirne rescindendo ogni legame con ciò che è russo, compresa la lingua che in tanta parte parla. Sarà una sfida, e non delle ultime, della ricostruzione, e lo è già della resistenza. Ma questo non riguarda più l’altruista putinismo denazistizzante su cui sono accomodati in tanti, che della “vera storia” di Lilin si contenteranno.

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