Una marcia a sostegno dell'Ucraina nel marzo 2022, Londra (LaPresse)

Piccola posta

L'ostilità alla resistenza di Kyiv deriva dalla misconoscenza

Adriano Sofri

In Repubblica Ceca protestano in 80 mila contro l'Ue e la Nato mentre Orbàn firma un contratto separato con Gazprom. Avevamo un'opinione superficiale e sbagliata dell'Ucraina, perché la conoscevamo poco, poi la voce del suo popolo ci è stata sbattuta in faccia

Venerdì, 2 settembre, a Praga, la Camera bassa del Parlamento ceco respinge con 100 voti contro 84 la mozione di sfiducia contro il governo di centrodestra presieduto da Petr Fiala, presentata dal principale partito di opposizione, il populista Azione dei cittadini insoddisfatti dello svelto milionario Andrej Babiš, già primo ministro. 

Sabato, 3 settembre, una manifestazione rossobruna – molto più bruna – di 70 mila persone, secondo la polizia, 100 mila secondo gli osservatori, riempie la piazza Venceslao a Praga, al motto “la Repubblica ceca al primo posto”, innalzando anche bandiere russe e scandendo slogan contro l’aumento delle bollette, l’Unione europea, la Nato, l’appoggio all’Ucraina, l’accoglienza ai profughi ucraini (la Repubblica ceca ne ha accolti 410 mila, 100 mila dei quali hanno trovato lavoro). Fra i bersagli degli organizzatori ci sono anche l’Organizzazione mondiale della sanità e le Nazioni Unite. I promotori della grande manifestazione, cui peraltro Babiš non ha aderito, sono il partito di Libertà e democrazia diretta, alleato della Lega italiana nel gruppo europeo Identità e democrazia, Trikolora e altri partiti di estrema destra, gruppi di estrema sinistra e l’avanzo dello storico Partito comunista, quello che nell’agosto del 1968 spalleggiò l’invasione di Praga. Il presidente Fiala ha definito la manifestazione “filorussa e contraria agli interessi della Repubblica ceca”. Tre giorni prima, il 31 agosto, l’Ungheria di Orbán ha firmato un contratto separato con Gazprom, “per la fornitura di massimo 5,8 milioni di metri cubi circa di gas naturale in più su base giornaliera, in aggiunta alla quantità contrattuale già in essere”.

Questa sequenza di notizie è degna della più attenta considerazione da parte dei cittadini e dei governi europei. Sono notizie anticipatrici sul costo civile, oltre che economico e sociale, della crisi energetica. Sono qualcosa di più: la misura dell’avversione di una parte consistente della popolazione europea alla resistenza ucraina, avversione che si vuole saldare con l’ostilità ai vaccini, la stretta sul costo della vita, la paura dell’inverno. Sono anche un’occasione inaspettata e malaugurata per misurare a che punto si spinga un immaginario pacifismo di sinistra, che saluta la piazza di Praga come la promessa della riscossa dei popoli.  Poi c’è quello che la sequenza di notizie dice a me e, spero, a qualcuna e qualcuno come me. Dice che i due paesi che più brutalmente e platealmente subirono, prima dell’Ucraina, l’invasione russa, e che più eroicamente, perché senza speranze, provarono a resisterle, l’Ungheria di Budapest 1956 e la Cecoslovacchia (intera allora) di Praga 1968, sono oggi i più renitenti a solidarizzare con l’Ucraina invasa, dal governo, in Ungheria, o dalla piazza mista di estrema destra sciovinista e xenofoba e resti carristi, a Praga. 

L’altroieri sera ero in compagnia, tornato in Italia, di amici fra quelli cui sono più affezionato. Ho detto la mia convinzione che le variegate versioni del rimpianto per la Russia sovietica non sono che una parte, forse nemmeno la più rilevante, dell’ostilità diffusa alla resistenza ucraina, e l’altra parte è in un forte sentimento di avversione per la gente ucraina e in generale per quel paese. Qualcosa di simile al sentimento provato a lungo per gli albanesi o per i romeni. Mi sono interrogato molto su questa impressione e sulle eventuali cause. La principale, direi, è la misconoscenza: dell’Ucraina, se non come di una provincia dell’impero, non sapevamo niente, e non avevamo voglia di sapere niente, nemmeno dopo che si era acceso il fuoco che oggi divampa. Un’altra, temo, è la categoria sociologica delle “badanti”: preziose, singolarmente prese, per chi abbia un corpo da affidare, ma pur sempre un mestiere inferiore, di quelli che “le italiane e gli italiani non fanno”. Quando, dopo il 24 febbraio, “le badanti ucraine” hanno preso la parola sui nostri schermi, e si sono mostrate con le loro facce, le lingue che padroneggiano, le idee che sostengono, è stata una rivelazione, felice o imbarazzante e anche fastidiosa. Come di chi non stia al suo posto.

Un’altra origine della cattiva reputazione, mi pare di aver ricostruito, sta nell’esperienza vasta e drammatica di tante coppie italiane impegnate ad adottare bambini ucraini, e messi a contatto con la realtà spesso bruttissima degli orfanotrofi e degli istituti in cui erano tenuti, almeno fino a una certa data. (Poi le cose sono molto migliorate, credo). 

I miei commensali (l’ho detto, i più stimabili, i più amati) mi hanno pressoché all’unisono contraddetto: non esiste affatto un simile pregiudizio antiucraino, e la mia impressione è l’effetto dell’interpretazione attraverso il piccolo mondo che frequento, e che è per fortuna lontano da quello reale. Mi hanno fatto pensare, naturalmente. Resto riluttante. Non ho visto un tatuaggio nazista, di persona, in tre mesi di frequentazione fitta di ucraini civili e militari, ho studiato come ho potuto battaglioni Azov e storie banderiste, e ho continuato a chiedermi come siano possibili i fiancheggiatori della denazificazione dell’Ucraina che ieri andavano in piazza con gli assalitori della Cgil in nome della buona causa e oggi trovano incoraggiante la piazza Venceslao brunorossobruna. Mi ricordo, certo, che il 27 febbraio scorso la piazza Venceslao si riempì di “centinaia di migliaia” in solidarietà con l’Ucraina. Forse è vero che mi lascio impressionare dalla mia “bolla” – la metto tra virgolette e giuro che è la prima e la penultima volta che la impiego. La penultima, perché una bolla come i 70 mila o i 100 mila di Praga mi fa una paura dannata. 

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