La Corte costituzionale riunita (Ansa) 

piccola posta

I detenuti che non collaborano non sono tutti uguali

Adriano Sofri

La Corte costituzionale si è pronunciata contro l'assolutezza del criterio che esclude il detenuto non "collaborante" dall'accesso ai benefici carcerari. "Il silente 'per sua scelta' non equivale al silente 'suo malgrado'". Ma in Parlamento questa linea non passa

Seguendo un pronunciamento della Corte europea dei Diritti dell’Uomo, nel maggio scorso la Corte costituzionale, trattando dell’ergastolo cosiddetto ostativo, per delitti di contesto mafioso e detenuti che avessero scontato già 26 anni, aveva sentenziato che la mancata “collaborazione” non potesse più essere intesa come una condizione assoluta, tale da impedire ogni altra valutazione circa la pericolosità perdurante del detenuto, dimostrandone automaticamente il mancato distacco dalla criminalità organizzata (art.4-bis, comma 1 dell’ordinamento penitenziario). Quella condizione assoluta eliminava il detenuto non “collaborante” – qualunque ne fosse il movente, compresa la paura di conseguenze sui propri famigliari, o l’eventualità che non disponesse di informazioni utili – dall’accesso ai benefici carcerari, fino alla liberazione condizionale. Così stabilendo, la Corte decideva tuttavia di evitare un intervento puramente demolitorio, e in nome delle esigenze di sicurezza collettiva rinviava al Parlamento una correzione che, compensando l’eliminazione della “collaborazione” come conditio sine qua non, contemplasse ulteriori valutazioni, come l’emergere di specifiche ragioni della mancata collaborazione o l’introduzione di prescrizioni particolari per il periodo di libertà vigilata del soggetto. Correzione che il Parlamento deve attuare entro il 10 maggio 2022, data nella quale sarà riesaminata la legittimità costituzionale. 

Era una decisione insieme coraggiosa, nel cancellare l’assolutezza di un criterio per molti versi opinabile – “lasciate ogni speranza” – e prudentissima nel sottoporla a ulteriori vincoli legislativi. Il Parlamento, nei ritagli di tempo, sta adoperandosi per svuotare di ogni contenuto la decisione della Corte, tra gli anatemi di importanti autorità giudiziarie: ultima, per me davvero sorprendente, l’affermazione di Giovanni Salvi, procuratore generale della Cassazione, secondo cui ergastolo ostativo e 41 bis non sono “carcere duro”. Ieri, 25 gennaio, la Corte costituzionale ha pubblicato un’altra sentenza (n. 20 del 2022, relatore Nicolò Zanon) la quale stabilisce che: “I detenuti che non collaborano con la giustizia non sono tutti uguali: il silente ‘per sua scelta’ non equivale al silente ‘suo malgrado’.”  Il tema era la legittimità della distinzione, rispetto al principio di uguaglianza. Il magistrato di sorveglianza di Padova che aveva ricorso alla Corte sosteneva che fosse arbitrario distinguere fra chi “oggettivamente può, ma soggettivamente non vuole collaborare” (silente per sua scelta), da chi “soggettivamente vuole, ma oggettivamente non può” (silente suo malgrado). Il giudice sottolineava che “l’atteggiamento soggettivo dei due gruppi di detenuti potrebbe essere identico, poiché anche chi si vede accertata la collaborazione impossibile non solo potrebbe non voler collaborare (se lo potesse fare), ma potrebbe rivelare, addirittura, una maggiore pericolosità rispetto a colui che abbia volontariamente scelto di serbare il silenzio, mosso ad esempio da timori per la propria e l’altrui incolumità”. 

“La Corte, nel dichiarare non fondate le censure, ha tuttavia osservato che il carattere volontario della scelta di non collaborare costituisce un oggettivo sintomo di allarme, tale da esigere un regime rafforzato di verifica, esteso all’acquisizione anche di elementi idonei a escludere il pericolo del ripristino di collegamenti con la criminalità organizzata, senza i quali la decisione sull’istanza di concessione del permesso premio si arresta già sulla soglia dell’ammissibilità. Quando, invece, la collaborazione non potrebbe comunque essere prestata, ai fini del superamento del regime ostativo può essere verificata la sola mancanza di collegamenti attuali con la criminalità organizzata”.  

La Corte conclude che “questa differenziazione non appare irragionevole”. Tanto è stato sufficiente per rigettare la questione, “senza dimenticare – aggiunge la sentenza – che la previsione delle ipotesi di collaborazione impossibile o inesigibile scaturisce da ripetute pronunce di questa Corte, tese appunto – nella vigenza di un regime basato, senza eccezioni, sulla presunzione assoluta di pericolosità del non collaborante – a distinguere, con disposizioni di minor rigore, la posizione del detenuto cui la mancata collaborazione non fosse oggettivamente imputabile”. 

Come si vede, si tratta di confini labili, e drammaticamente ambigui. Specialmente delicata è la categoria (e la sua vasta gamma di circostanze materiali e morali: l’esistenza o no di un pericolo attuale per l’incolumità di altre persone, per esempio) di “chi, potendo collaborare, non vuole”, anche quando la rottura con i legami criminali sia pienamente avvenuta.

Ho una postilla tragicomica. Anche a me, così inadeguato alla criminalità organizzata, e così inflessibile nel ricordarmi non colpevole, si rimproverò da passeggere autorità di non mostrarmi pentito e di non collaborare. Se collabori te la cavi, perfino se sei innocente.