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Con la scadenza del 31 agosto, Joe Biden si è legato le mani da solo

Adriano Sofri

L’insipienza degli americani ha consegnato ai talebani in ostaggio, oltre che l’intero popolo afghano, le migliaia di cittadini Usa nella capitale. E chi ha stabilito l'inattuabile scadenza della fine del mese, se non il presidente?

Una volta che si finisca nel centro di una tempesta che non si è prevista, e si è negata ostinatamente anche quando se ne veniva avvertiti, le affannose mosse di difesa non fanno che precipitare nel gorgo. Non è facile tener dietro alla successione dei fatti e ai loro autori. Lunedì un portavoce talebano, Suhail Shaheen, dichiara seccamente alla intervistatrice della Bbc che non c’è possibilità di dilazione al 31 agosto, e che se gli Usa e gli alleati non avranno completato il ritiro “ci saranno reazioni”. Impressione di protervia maramaldesca. Titoli sull’arroganza ultimativa dei talebani, sulla pelle dei disperati che languono nell’aeroporto di Kabul. I talebani sono protervi infatti, per regolamento. E possono permetterselo perché l’insipienza degli americani e della coalizione ha consegnato loro in ostaggio, oltre che l’intero popolo afghano, i loro stessi concittadini. Le migliaia di americani a Kabul, 11 mila secondo alcune notizie, 4 mila solo nell’ambasciata, sono altrettanti bersagli possibili di ritorsioni. Se avvenisse, come potrebbero rispondere gli americani? Con una reazione militare, che moltiplicherebbe le ritorsioni? Hanno le mani legate, e se le sono legate strette da soli.

Nei giorni scorsi ascoltavo le ipotesi di osservatori i cui pensieri sono protetti da qualche migliaio di chilometri dall’Afghanistan. Commandos americani, per esempio, potrebbero fare dei blitz per prelevare le persone da trasferire, aprirsi varchi nelle strade del paese e della capitale... Così da rischiare di procurarsi, disastro nel disastro, una carneficina di soldati e civili, costo irrilevante e perfino lucroso per i talebani (e piatto ricco per i concorrenti dello Stato islamico del Khorasan) e micidiale per Biden? Il quale, ancora durante l’avanzata travolgente dei talebani, rivendicava coi suoi cittadini che non un militare americano era stato colpito dopo l’annuncio della ritirata (nel frattempo, le perdite civili erano alle stelle: “Circa 2.400 civili sono stati uccisi o feriti tra il 1° maggio e il 30 giugno secondo un rapporto dell’Onu di luglio, il numero maggiore osservato per lo stesso periodo da quando sono cominciate le registrazioni nel 2009” – New York Times).

Ma la domanda di questa sera è inevitabilmente una (benché, salvo che mi sia sfuggito, non la si trovasse in giro): chi e quando ha fissato questa fatale scadenza, la “deadline” insuperabile, al 31 agosto? Malinconica risposta: il presidente Joseph Biden. Sentite per esempio il discorso dell’8 luglio: “Quando in aprile ho annunciato il nostro rientro, ho detto che ne saremmo stati fuori entro settembre, e siamo sulla buona strada per realizzare questo obiettivo. La nostra missione militare in Afghanistan si concluderà il 31 agosto. Il rientro sta procedendo in modo sicuro e ordinato, avendo come priorità la sicurezza delle nostre truppe”. La deadline era originariamente fissata, per ovvie (e incaute) ragioni simboliche all’11 settembre; dopo di che, alla vigilia del disastro, è stata anticipata unilateralmente da Biden, che oggi, con gli alleati europei, è costretto ad augurarsi una dilazione, essendo evidente l’impossibilità di portare a termine l’evacuazione. L’11 settembre ventennale di quest’anno sarà un giorno doppiamente triste. Purché non avvenga ancora il peggio.

Intanto, si conta su una magnanimità dei talebani. Che oggi, in compiaciuta conferenza stampa, si sono un po’ dati sulla voce circa la tassatività del 31 agosto. Confidiamo.

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