Piccola Posta

Il volto di Willy, manifesto contro fascismo, razzismo, prepotenza, rozzezza

Adriano Sofri

L’impulso della vendetta e l’accostamento a Pontassieve

Bisognava aspettare, sull’infamia di Colleferro. Bisogna essere cauti, sulle prime versioni, nelle quali tutto torna. Tatuaggi, arti marziali, fotografie e post su Facebook. Ricordarsi che uno spirito di linciaggio al coperto è sempre in agguato, e i social lo ospitano, eccitano ed esaltano. Ricordarsi soprattutto che la giustizia è altra cosa dalla vendetta, che non si devono invocare pene “esemplari”, che l’efferatezza di un crimine può aggravare il giudizio, ma non sospende la legge. (Un precedente è memorabile nella primissima storia repubblicana, l’amnistia detta di Togliatti, che era allora, nel 1946, il Guardasigilli, dove si escludevano le “sevizie particolarmente efferate”. Non efferate, particolarmente efferate).

 

Ho aspettato soprattutto perché anch’io, come la gran parte dell’umanità contemporanea, guardando il viso del ragazzo Willy e immaginando – siamo questo, animali capaci e forzati a immaginare – ho provato l’ansia di punizione feroce che poi ciascuno prova a tradurre in parole e diversamente esprime, compiacendosene o addomesticandole o tenendole a bada e tacendone. Tutto comprensibile, ragionevole, chiaro, anche. Perché allora resta un disagio, un turbamento, una sensazione di inadeguatezza, anche in chi, come me, sia convinto di sapere quali sono le cose giuste da pensare, per la piccola parte in cui i pensieri si governino, e da dire? Penso che sia perché le persone comuni non sono magistrati inquirenti né giudici né poliziotti o carcerieri. I quali a loro volta non sono solo giudici, eccetera, e a loro volta avranno reazioni roventi e dovranno metterle a cuccia.

 

E penso che sia perché la giustizia non è vendetta, ma la vendetta, prima di essere la negazione della giustizia, è un passo verso la sua conquista. Sta a metà, nel passato del genere umano, fra il soccombere del più debole e il giudicare secondo la legge. E il passaggio si ripete, oltre che nella storia grande e grossa, che ama retrocedere almeno quanto avanzare, anche nella vita delle persone. Un primo impulso a vendicare un’azione feroce e ripugnante, a soccorrere, se non la vita spenta, il ricordo di chi ne è stato vittima, non ha niente di cui vergognarsi – ci si vergognerebbe del contrario. La serenità che si richiede a un giudice e anche a un cittadino è successiva, è un risultato della ragione, dell’educazione, della responsabilità. Della lezione dei fatti. O, per qualcuno, della fede e dei buoni esempi. La manifestazione di quel primo impulso può essere uno sfogo, un risarcimento simbolico all’abbandono in cui un inerme è stato lasciato, un’allusione alla domanda angosciosa: perché nessuno ha saputo intervenire per impedirlo? E soprattutto che cosa avrei fatto io, che cosa farò io? (“Quando mi trovassi in una simile circostanza”, si dice. In una misura, si è sempre tutti “in una simile circostanza”, anche se pochi partono per il Congo).

 

Lo sfogo che si compiace di efferatezze e trivialità verbali è orribile. Tuttavia la manifestazione della pena e dell’offesa che un atto come quello di Colleferro suscitano è una condizione non solo umana ma necessaria. E’ una ribellione, decisiva almeno quanto l’esercizio peculiare della giustizia amministrata da chi vi è preposto. Gli autori invasati dell’uccisione di Willy, anche se la morte abbia ecceduto la loro volontà, sia stata “preterintenzionale” – c’è un momento, quando la violenza fisica e di banda si sfrena, in cui tutto va oltre l’intenzione – sentivano, si erano abituati a sentire, ne avevano accumulato la documentazione, di avere attorno a sé un’ammirazione, un’invidia, un consenso gregario, e di questa sensazione fa parte anche la paura che tenevano a suscitare. Le loro fotografie e didascalie e i social che le ospitavano non erano affatto la prova e nemmeno un indizio importante di una disposizione omicida, erano però il documento del contesto in cui inserivano le loro imprese, e del mondo diviso in due che faceva loro da pubblico, i like e gli altri.

 

Potevano venire misure di normale polizia ad arginare la pretesa di farla da padroni sul loro territorio, sul giro di paesi e di locali che avevano eletto a loro mandamento, se è vero quello che tanti hanno testimoniato sui precedenti. Ma polizia e tribunali e galere non hanno la meglio sugli energumeni di paese così come sulla grande criminalità organizzata se gli uni e l’altra non si sentono addosso il disprezzo, la vigilanza e l’ammonimento delle persone. Quanto al fascismo e al razzismo, la versione “culturale”, il “fascismo eterno”, può senz’altro essere evocata a segnare i connotati di una mentalità che prima e dopo la notte di Colleferro si sono nitidamente mostrati in questa vicenda, ed è inutile la lezioncina sulla differenza dal fascismo storico o dal razzismo del ’38, che peraltro colleziona anche lui i suoi emuli.

 

Direte ancora che questo fascismo eterno, classico com’è, e non di rado imparentato con divise di colore opposto, sfugge ogni volta alla descrizione degli avvenimenti nuovi e singolari. Tuttavia questa volta è successo il contrario, è venuta la controprova: quella fotografia del viso di Willy. E’ bello e allegro com’è allegro e bello un ragazzo italiano di Capoverde, di 21 anni che sembrano 16. Le fisionomie non stabiliscono né colpevolezze né innocenze, ma quella fisionomia di Willy è un manifesto contro fascismo razzismo prepotenza rozzezza e disperazione. Autori allenati del proprio destino, i suoi massacratori hanno avuto in più questa sfortuna, la vittima più sbagliata. Tutte le vittime sono sbagliate, certo, ma ciascuna a suo modo.

 

Ho una postilla sull’accostamento di Colleferro a Pontassieve, grottesco prima che vergognoso. Una giovane donna di origine congolese, dalla vita ammirevole, a quel che se ne è saputo, ha avvicinato Matteo Salvini per maledirlo. Piccola, un visetto sollevato mentre lui si chinava verso lei. Ho guardato meglio che potevo il video. Brevissimo, lui comprensibilmente interdetto, lei aggrappata a lui mentre la tiravano via. Mi sembra ragionevole pensare che così abbia strappato la camicia e la collana-rosario. Posso fraintendere, sicuro, ritenendo preterintenzionali camicia e rosario strappati. Mirava a strapparli? Troppa grazia. Ricorderei che il Congo è uno dei paesi più cristiani del mondo, non ho tempo di verificare ma direi che ne viene una parte ingente della supplenza di religiose femmine e sacerdoti maschi nelle nostre parrocchie. Forse la giovane voleva denunciare in Salvini il sacrilegio? Troppa grazia, ancora. A scanso di equivoci, sono dispiaciutissimo del fatto, per lui assaltato alla sprovvista e per lei che deve aver covato un vero tormento, e non perderò tempo a ripetere che l’improvvida iniziativa giocherà per la candidata leghista in Toscana. Non è il punto.

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