Rea Silvia, foto Pablo Cabezos via Flickr

La singolare speranza di Ovidio

Adriano Sofri

I versi del poeta dall’esilio di Tristia e la “soluzione” perché i mali da cui è afflitto smettano

Tempo fa parlavo con Michele Ciliberto e con Maria Vittoria Benelli, curatrice delle edizioni della Scuola Normale pisana. “Ti spediamo il libro di Antonio La Penna su Ovidio”, mi ha detto. Vuoi dire Orazio? – ho detto io, pensando a un lapsus. Il lapsus naturalmente era mio: l’ “Orazio e l’ideologia del principato” è un libro classico di La Penna, una lettura obbligatoria e felice per noi studenti nel 1963 in cui uscì per Einaudi. “Ma no, Ovidio”, ha ribadito Maria Vittoria. “Ha il sottotitolo ‘Relativismo dei valori e innovazione delle forme’. E’ un bellissimo libro di 432 pagine”. Ora ce l’ho in mano. Antonio La Penna (Bisaccia, Avellino, 1925) è un illustre latinista e un letterato, poeta e intellettuale di impegno civile scontroso e rigoroso. In una paginetta iniziale ricorda, “non senza commozione”, di aver pubblicato in una collana della Scuola Normale il suo primo libro, su Properzio. Era il 1951. Sessantasette anni dopo è la volta di questo Ovidio. Per l’attualità, voglio citare (in traduzione) i versi dall’esilio di Tristia, in cui Ovidio descrive una singolare speranza che i mali da cui è afflitto smettano: “E’ lontana la bellezza di Roma, sono lontani gli amici, a cui sono affezionato, è lontana la donna a me più cara, mia moglie. Vicini, invece, il volgo formato di Sciti e la folla dei Geti vestiti di brache. Così mi affligge sia ciò che vedo che ciò che non vedo. Sola, tuttavia, mi resta, a consolarmi fra questi mali, la speranza che, grazie alla mia morte, essi non dureranno a lungo”.

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