Con chi parlo?

Rocco Todero

Registrare i dati anagrafici sui social? La proposta di Marattin non fa i conti con la proprietà delle imprese on line, ma chi si oppone reclama libertà senza responsabilità

L’idea lanciata dal deputato Luigi Marattin di richiedere la registrazione dei dati anagrafici di chiunque voglia aprire un profilo social non può lasciare nell’ombra alcune questioni sulle quali sarebbe invece necessario riflettere con la dovuta attenzione.

 

In primo luogo è opportuno ricordare come le piattaforme social siano degli spazi virtuali messi a disposizioni gratuitamente da imprese private che hanno già provveduto a regolamentarne l’utilizzo da parte di milioni d’individui.

 

Una legge dello Stato che obbligasse i colossi del web a rimodulare la loro policy nella direzione auspicata da Marattin rappresenterebbe, piaccia o non piaccia, un’ingerenza nell’esercizio di un’impresa privata, per giustificare la quale sarebbe necessario chiamare in causa la tutela di un interesse pubblico prevalente.

 

V’è da stabilire, in altre parole, se Twitter e Facebook siano ancora dei servizi privati di messaggistica istantanea, per il cui utilizzo debba essere l’utente ad accettare le regole d’ingaggio  predisposte dalla proprietà (possibilità dell’anonimato compresa), o se, invece, la capacità che questi social hanno oramai raggiunto di condizionare il dibattito pubblico sia tale da richiedere una regolamentazione da parte dell’autorità statale.

 

I danni che l’utilizzo da parte di anonimi non facilmente identificabili può arrecare alla sicurezza, alla libertà e alla dignità umana, giustificano la limitazione del diritto d’iniziativa economica nelle forme predisposte dalle imprese proprietarie delle piattaforme on line?

 

Non dovrebbe essere sufficiente, invece, la consapevolezza di ciascun utente d’avere accettato  volontariamente la disciplina che regola il social e che prevede la possibilità di doversi sorbire interazioni anonime?

 

L’altra questione attiene, di contro, alla pretesa d’esercitare la libertà di manifestazione del pensiero cercando, allo stesso tempo, d’usufruire di una qualche forma d’irresponsabilità individuale.

 

Se si parte dall’ovvia considerazione che non v’è dissidente politico che possa ragionevolmente sfuggire all’occhio di un apparato d’investigazione statale degno di questo nome, si può altrettanto sensatamente ritenere come l’anonimato appaia il pretesto dietro il quale orde di haters chiedono d’appellarsi all’immunità dell’irresponsabilità tutte le volte che potrebbero essere chiamati a dare conto e ragione (non necessariamente in sede penale) delle loro orride manifestazioni del pensiero.

 

E’ bene chiarire come l’aspetto fondamentale non sia tanto quello della sanzione penale da applicare alle condotte che integrano i reati d’opinioni, quanto di consentire l’applicazione della sanzione sociale del dissenso (e, perché no, dell’isolamento) verso chi degrada la comunicazione interpersonale ed il dibattito pubblico. 

 

Come possa però risultare efficace una sanzione sociale nei confronti di chi gode dell’anonimato e come si possa ingaggiare una battaglia d’idee con queste modalità è davvero difficile da comprendere.

 

La posizione di chi s’oppone alla registrazione dei dati anagrafici per l’utilizzo dei social rischia d’apparire, in definitiva, l’ennesima richiesta di non pagare mai pegno, nemmeno quando si richiede semplicemente d’avere il coraggio delle proprie idee.