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Contro gli indignati

Paola Peduzzi

Obama dice che un tweet sdegnato non si qualifica come “attivismo”, che i test di purezza sono pericolosi e che anche quelli che combattiamo “amano i loro figli” e potrebbero condividere qualcosa con noi. Grande elogio del compromesso

Ci siamo svegliati con il video di Barack Obama in loop, quando ancora non ci eravamo ripresi dalla conferenza stampa in cui Donald Trump ha annunciato l’uccisione del capo dello Stato islamico, Abuuu Baaakar al Baghdadi – e attendiamo di sapere tutto sul “beautiful dog” che ha azzannato il leader terrorista nel tunnel, si chiama Conan, è vero? Il confronto tra predecessore e successore è un grande classico di questa stagione – quello di Jimmy Kimmel di questi giorni è imperdibile, bello e doloroso più del solito – si sentono i sospiri fin qui, ma quel che ha detto Obama in un incontro organizzato a Chicago nella sua Fondazione non ha a che fare con le differenze tra leader né con l’annosa e irrisolta questione “l’obamismo ha prodotto il trumpismo”: Obama ha parlato a noi di noi. Non di come eravamo, ma di come potremo essere.

  

 

L’ex presidente ha detto che diventare degli agenti di cambiamento, di cambiamento vero e concreto, è un affare ben più complesso dell’essere “il più moralista possibile”, giudicare ogni cosa, arrogarsi il primato di aver denunciato per primi ogni cosa. Questo non è cambiamento, così come un hashtag, un tweet, un post, l’indignazione permanente via social non sono “attivismo”. Mi capita, ha detto Obama, “qualche volta, quando sono in mezzo ai giovani, di avere la sensazione, accelerata dai social media, che pensino: quel che mi rende uno che cambia le cose è giudicare il più possibile quel che fanno gli altri. E pensano che questo sia sufficiente. Se twitto o metto un hashtag per dire che non hai fatto una cosa bene, o hai usato il verbo sbagliato, poi posso accomodarmi e sentirmi a posto con me stesso, perché ‘man, hai visto quanto sono sveglio e attento?, ti ho denunciato’”. E’ la “call out culture”, la cultura della denuncia o dell’indignazione o del cancellare e boicottare pubblicamente qualcuno che non la pensa come te, l’espressione massima di una suscettibilità fuori controllo che sfocia invariabilmente nello sdegno. O nel sentirsi invariabilmente offesi, perché nella posizione della vittima si ottengono molte più condivisioni, molto più seguito. L’indignazione e la denuncia pagano sui social: non fuori di lì, ma che importa? In questo pseudo-attivismo, non esiste un mondo al di fuori dei social.

 

Obama insiste. “Questa idea di purezza, e il fatto che tu non scendi a compromessi mai, e sei sempre politicamente vigile, e tutte queste cose: conviene che ne vieni fuori velocemente”, perché questa è la trappola del moralismo e dell’intransigenza, e finisce con insiemi di persone, di idee, di pretese che non si intersecano mai. Le bolle con la loro severità critica, che promettono soltanto maggiore offesa. “Il mondo è un caos – ha detto Obama – ci sono complessità e ambiguità. Molte persone che fanno davvero cose buone hanno delle debolezze, e le persone con cui invece litigate e attaccate briga vogliono bene ai loro figli e potrebbero persino condividere qualcosa” con voi e con le vostre idee. Se tutto quello che riusciamo a fare è “casting stones”, accumulare prime pietre da scagliare contro gli altri, non andremo “molto lontano”.

 

L’elogio del compromesso non è nuovo nella retorica di Obama che altre volte – come quando ha rilasciato la sua prima intervista da ex al principe Harry – ha segnalato le conseguenze negative del “discorso bianco-nero” prevalente sulla rete e soprattutto il fatto che tutto questo lamentarsi, indignarsi, criticare e insultare non sia qualificabile come attivismo: per cambiare le cose, caro lupacchiotto da tastiera, “devi andare sul campo e ottenere qualcosa”. Obama è anche convinto che una volta che si esce dallo schermo, dalla protezione di uno schermo che fa da filtro alle relazioni sociali, si diventa meno indignati, certo insultare sui social è più semplice che insultarsi in faccia (questa convinzione diventa sempre meno vera, in realtà). Ma non c’è nessun cambiamento se vince il test di purezza, la volontà di passare al vaglio ogni interlocutore, vicino o lontano, buoni e cattivi, tu la pensi come me e stai con me, gli altri fuori, denunciateli anche voi. La purezza non esiste nella natura umana, ma la sua ricerca è stata soppiantata dal sentirsi sempre offesi, oltraggiati, risentiti.

 

Nelle parole di Obama ognuno ci ha visto quello che voleva: un attacco a Bernie Sanders e ai radicali tra i democratici che fanno della propria presunzione di purezza l’arma per spezzare il partito; la sintesi della sua ipocrisia, moralizzatore da presidente e ora improvvisamente critico del moralismo; altre varianti, dettate da quel che si pensava e si pensa di Obama e dei progressisti. Al di là dei pregiudizi, l’ex presidente illumina un problema culturale profondo, l’incapacità di parlarsi, che sta spezzando a metà le società occidentali. E dice: un tweet non ti rende un attivista, sentendoti offeso non cambierai il mondo, chi non la pensa come te potrebbe essere una risorsa. E’ l’evoluzione del “go high” che disse Michelle Obama, ma sa di dialogo e di compromesso e di riavvicinamento. Non è un elogio di come eravamo, è una promessa per il futuro – e gli impuri da scacciare non fanno parte della nostra cultura.

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  • Paola Peduzzi
  • Scrive di politica estera, in particolare di politica europea, inglese e americana. Tiene sul Foglio una rubrica, “Cosmopolitics”, che è un esperimento: raccontare la geopolitica come se fosse una storia d'amore - corteggiamenti e separazioni, confessioni e segreti, guerra e pace. Di recente la storia d'amore di cui si è occupata con cadenza settimanale è quella con l'Europa, con la newsletter e la rubrica “EuPorn – Il lato sexy dell'Europa”. Sposata, ha due figli, Anita e Ferrante. @paolapeduzzi