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Con il jazz contro il muro. A Berlino, la prima picconata la diede Martin Luther King nel '64

Marco Bardazzi

Il dono più importante che MLK lasciò alla Germania dopo la sua visita fu un testo che scrisse come introduzione alla prima edizione del Berlin Jazz Festival. Colonna sonora: Miles Davis e Coleman Hawkins

Fu l’incontro tra due ferite aperte. Due sfregi che avevano in comune il disprezzo per la libertà e la dignità di ogni persona. Sessant’anni fa Martin Luther King sbarcò in una Berlino da poco divisa dal Muro e portò nel cuore dell’Europa un dramma e una meraviglia, entrambi puramente americani: la lotta per i diritti dei neri e le note del jazz. In uno dei momenti più caldi della contrapposizione tra i due blocchi, quello occidentale e quello che restava invisibile dietro la cortina di ferro, fu un confronto insolito. Le ferite dell’America che cercava di sconfiggere il razzismo si specchiavano in quelle dell’Europa, che dopo aver cancellato il nazismo non riusciva a liberarsi dal comunismo sovietico. 


Era l’America che si faceva vicina non come superpotenza, ma attraverso il lato oscuro della sua storia. Agli europei dell’est segregati dietro un Muro e oppressi da regimi dittatoriali, arrivava il racconto di un altro tipo di segregazione, che mostrava i limiti del modello americano, ma nel tempo stesso anche la sua forza rigenerativa. Vent’anni dopo sarebbe toccato a un presidente statunitense, Ronald Reagan, presentarsi di nuovo di fronte al Muro a nome di un paese che nel frattempo aveva fatto enormi passi avanti, per chiedere a gran voce a “Mr. Gorbaciov” di abbattere una volta per tutte quella barriera. E quattro decenni dopo la visita di Martin Luther King, con il Muro ormai scomparso, sarebbe stata la volta di un candidato nero alla Casa Bianca, Barack Obama, venuto a parlare a una folla immensa di fronte alla Porta di Brandeburgo per ricordare a tutti quanta strada avesse fatto l’America dai tempi del viaggio del leader del movimento per i diritti civili.

Oggi che negli Stati Uniti c’è un candidato presidente come Donald Trump che esorta Vladimir Putin a fare “quello che cavolo vuole” in Europa, afferma con leggerezza che Hitler “ha fatto anche cose buone” e si disinteressa della sorte dell’Ucraina e degli altri paesi che confinano con la Russia, vale la pena ricordare il viaggio e le parole di King di sessant’anni fa a Berlino. Perché aiutano a far memoria di come la presenza dell’America in Europa nel secondo dopoguerra non sia stata affidata solo alla Nato, alla diplomazia, alle testate nucleari e al Piano Marshall, ma sia fatta di legami più complessi e profondi. Gli americani hanno attraversato l’Atlantico molto spesso anche per condividere i limiti e le ferite della loro storia, per metterli a fattor comune con gli europei segregati dentro la fetta di continente schiacciata dal dominio sovietico. In particolare le note del jazz, la musica nata dalla sofferenza dei neri americani, sono diventate sinonimo di libertà ai tempi del viaggio del reverendo King, che tra le altre cose tenne a battesimo il primo festival jazz nella storia di Berlino. 


Quando Martin Luther King visitò la Germania nel 1964, la sua avventura era già entrata nella fase finale, quella degli anni caldi delle lotte per i diritti civili che culmineranno nelle rivolte del Sessantotto e nell’assassinio dello stesso King a Memphis. Un delitto che chiuse la parabola di un quindicennio di battaglie del leader della protesta nera, ma accelerò la scomparsa di ciò che ancora era rimasto del segregazionismo al sud.  Un mese dopo essere stato a Berlino, il reverendo nel 1964 fu insignito del premio Nobel per la pace, come riconoscimento per la lotta per i diritti degli afroamericani che aveva condotto fino a quel momento. Da nove anni entrava e usciva dal carcere, da quando nel 1955 come giovane pastore della chiesa battista di Dexter Avenue a Montgomery, in Alabama, aveva cominciato a guidare le proteste pacifiche contro la segregazione razziale. C’erano state rivolte e campagne che lo avevano reso una figura di statura prima nazionale, poi internazionale. L’anno prima del viaggio a Berlino c’era stata la marcia su Washington “for Jobs and Freedom”, quella resa celebre dalla folla sul Mall e dal suo discorso di fronte al Lincoln Memorial, “I have a dream”. 
Molto altro era successo in quel 1963 della marcia sulla capitale, incluso l’assassinio a Dallas di John F. Kennedy, il presidente che aveva aperto le porte della Casa Bianca a King e ne aveva appoggiato l’operato. Ma anche il presidente che il 23 giugno 1963 aveva sfidato l’Urss a Berlino, a due anni dall’erezione del Muro e pochi mesi dopo la crisi dei missili di Cuba, pronunciando il discorso nel quale si era detto orgoglioso di poter dire “Ich bin ein Berliner!”. 


King arrivò nella Berlino ovest circondata dal Muro e dal filo spinato sulla scia di questi eventi epocali. A gennaio la rivista Time gli aveva dedicato la copertina come “Uomo dell’anno”. In quello stesso 1964 contribuì a far passare una legge epocale come il Civil Rights Act, voluta da Kennedy e poi imposta con forza in Congresso dal suo successore Lyndon B. Johnson, il presidente texano passato alla storia come colui che più di tutti costrinse il sud a mettere fuori legge ogni discriminazione razziale (una scelta politica coraggiosa, che il Partito democratico ancora oggi paga elettoralmente negli stati della Dixieland americana, diventati di colpo repubblicani).
A Berlino, King prima visitò per alcuni giorni la zona ovest, pronunciando discorsi e stringendo mani nella città isolata dal resto dell’Europa. L’attivista americano raccontò cosa stava avvenendo negli Stati Uniti, parlò del Freedom Movement e delle lotte per i diritti civili e spiegò la propria convinzione che i neri fossero “chiamati a essere la coscienza del nostro paese”.  Poi all’improvviso si presentò al Checkpoint Charlie e chiese di entrare a est. Qui la storia incrocia la leggenda, perché le cronache dell’epoca raccontano che era senza passaporto. Secondo alcune ricostruzioni, lo aveva dimenticato in albergo. Ma altre fonti sostengono che gli era stato gentilmente “ritirato” dalle autorità tedesche occidentali, per evitare che creasse incidenti diplomatici tentando di recarsi nel settore orientale. Fatto sta che i poliziotti di guardia al celebre Checkpoint lo riconobbero e, incredibilmente, decisero di lasciarlo passare comunque. Il reverendo si recò nella Marienkirche, la più antica chiesa protestante di Berlino, vicino ad Alexanderplatz, per pronunciare un sermone. La chiesa si riempì di così tanta gente che King fu costretto a ripetere poco dopo il proprio intervento in una seconda chiesa nelle vicinanze, per le persone che non erano riuscite a entrare nella Marienkirche. Fu un discorso dal forte connotato religioso e non politico, per evitare di far irrigidire le autorità comuniste, ma il reverendo non rinunciò del tutto a far riferimento al Muro: “L’amore cristiano supererà tutte le barriere costruite dall’uomo”, disse ai cittadini di Berlino est. 


Ma il dono più importante che MLK lasciò alla Germania e all’Europa fu un testo che scrisse, senza pronunciarlo, come introduzione al programma della prima edizione del Berlin Jazz Festival che si tenne pochi giorni dopo la sua visita. L’evento segnava lo sbarco in grande stile della musica americana nella capitale divisa. A Berlino per l’occasione arrivarono Miles Davis con il suo quintetto, il sassofonista Coleman Hawkins e un gran numero di artisti afroamericani. L’intervento non ha la notorietà del discorso sul National Mall, ma a distanza di sessant’anni suona altrettanto potente. King spiegò come i musicisti jazz siano stati i pionieri del dibattito sull’identità razziale molto prima che cominciassero a occuparsene studiosi e politici. Quella musica puramente americana, disse, si era fatta carico di articolare le sofferenze, le gioie e le speranze dei neri quando ancora scrittori e poeti non avevano avuto quel coraggio. Nella lotta particolare dei neri d’America, era il senso del suo messaggio, si poteva riscontrare una grande affinità con la lotta universale di ogni uomo per la libertà. 


“Dio ha creato molte cose a partire dall’oppressione”, scrisse King ai partecipanti al Berlin Jazz Festival. “Ha dotato le sue creature della capacità di creare e da questa capacità sono scaturiti i dolci canti di dolore e di gioia che hanno permesso all’uomo di affrontare il suo ambiente e molte situazioni diverse. Il jazz parla per la vita. Il blues racconta la storia delle difficoltà della vita e, se ci pensate per un momento, vi rendete conto che i jazzisti prendono le realtà più dure della vita e le mettono in musica, solo per uscirne con una nuova speranza o un senso di trionfo. Questa è musica trionfante”. 
Seguendo il tono incalzante dei suoi sermoni e dei discorsi pubblici, Martin Luther King proseguiva: “Gran parte del potere del nostro Freedom Movement deriva da questa musica. Ci ha rafforzato con i suoi ritmi dolci quando il coraggio cominciava a venir meno. Ci ha calmato con le sue ricche armonie quando gli spiriti erano giù. E ora il jazz viene esportato nel mondo. Perché nella lotta particolare dei negri in America c’è qualcosa di simile alla lotta universale dell’uomo moderno. Tutti hanno il blues. Tutti desiderano un significato. Tutti hanno bisogno di amare ed essere amati. Tutti hanno bisogno di battere le mani ed essere felici. Tutti desiderano la fede”.


Quel testo di sessant’anni fa, breve e diretto, oggi viene studiato soprattutto nelle scuole di jazz americane e nei corsi sui diritti civili. All’epoca era rivoluzionario sia per l’America, sia in un contesto così diverso come quello di Berlino, dove però c’erano ferite aperte che facevano sentire una sintonia con le battaglie dei neri americani. Per il jazz fu un momento di consacrazione geopolitica, dopo decenni in cui l’impegno civile contro la segregazione era stato visto da alcuni dei protagonisti con una certa freddezza. Personaggi come Thelonious Monk o Louis Armstrong erano stati prudenti, preferivano concentrarsi sulla produzione artistica senza ergersi a portavoce della “loro gente”.  I brani con una forte impronta di denuncia sulla questione razziale non mancavano: gli storici del jazz citano a questo proposito Fables of Faubus di Charles Mingus, Alabama di John Coltrane o Mississippi Goddamn di Nina Simone. Il salto di qualità era arrivato però quando l’amministrazione Eisenhower, negli anni Cinquanta, si era resa conto del potere che il jazz poteva avere come arma diplomatica per portare la voce dell’America nel mondo. La segregazione e in generale la condizione dei neri negli Stati Uniti erano temi che usava continuamente l’Urss, insieme ai propri simpatizzanti nei paesi occidentali, inclusa l’Italia, per dimostrare la decadenza della superpotenza rivale e la superiorità morale del blocco orientale.


Nel pieno della Guerra fredda, il presidente Eisenhower decise per questo di lanciare il programma dei Jazz Ambassadors, affidando al Dipartimento di stato il compito di reclutare sassofonisti, trombettisti e orchestre jazz nella battaglia ideologica contro il comunismo. Il primo a venir chiamato “alle armi” fu Dizzy Gillespie, con una mossa che suscitò le ire dei razzisti del sud. Il senatore della Louisiana Allen Ellender si indignò, sostenendo che mandare Gillespie a rappresentare l’America nel mondo “invece di fare del bene ci danneggerà, perché la gente crederà davvero che siamo dei barbari”. L’organizzazione White Citizens Council dell’Alabama si spinse a definirlo “un complotto per imbastardire l’America”.  Gillespie non si scompose, accettò l’incarico, ma fece capire subito che l’avrebbe gestito a modo suo. Prima di partire per un tour in medio oriente e in alcuni paesi dell’est europeo, il trombettista bebop fu chiamato dal Dipartimento di stato che gli disse di recarsi a Washington per ricevere un briefing su come doveva rispondere a domande sul razzismo americano. “Ho ricevuto un briefing lungo trecento anni”, fu la sua risposta, con la quale annunciava che non sarebbe andato nella capitale. “So benissimo quello che ci hanno fatto. Se mi faranno domande, risponderò nel modo più onesto possibile”. Il jazz non accettava di creare una narrazione ideologica, né di mettere una foglia di fico sul dramma americano della schiavitù e della segregazione. Seguendo l’esempio di Gillespie, anche giganti come Armstrong e Monk cominciarono a farsi protagonisti della denuncia della condizione dei neri americani. Armstrong rifiutò l’invito a fare da ambasciatore con poche, secche parole: “Visto il modo con cui trattano la mia gente nel sud, per me possono andare al diavolo”. Cominciò invece a interpretare in modo più sofferto, con tono da attivista, un suo cavallo di battaglia come (What Did I Do To Be So) Black and Blue, celebre per la frase in cui denunciava: “My only sin is in my skin”.


Il jazz mantenne così un’onestà di fondo che gli permise di essere il miglior ambasciatore dell’America “reale”, con i suoi difetti, i suoi peccati e nello stesso tempo le sue speranze e i suoi aneliti di redenzione. E permise così a Martin Luther King di usarlo per dare una prima, prematura picconata al Muro, andando a testimoniare a Berlino la propria convinzione che ciascuno ha bisogno di “amore, felicità e fede” e riconoscendo al jazz il merito di essere “un trampolino di lancio verso tutto ciò”. 
 

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