Paolo Rossi, Paolo Jannacci e Giorgio Verdelli a Venezia. Foto ANSA 

FACCE DISPARI

Giorgio Verdelli: “Jannacci c'insegna che ci vuole sempre orecchio”

Francesco Palmieri

Il regista e autore porta in scena un documentario sul cantautore scomparso dieci anni fa. Dopo gli applausi del Festival del Cinema di Venezia continua la proiezione nelle città. "Jannacci è entrato nell'immaginario collettivo nazionale. E' ancora più attuale degli artisti attuali"

Ora che persino tanti virtuosi d’orchestra si affidano all’app dell’accordatore montata sullo smartphone, e il diapason è diventato un bibelot, chissà se ancora “ci vuole orecchio” e se “bisogna averlo tutto anzi parecchio”. Chissà cosa direbbe, anzi borbotterebbe Enzo Jannacci, di cui Guccini ricorda come un incubo affettuoso le telefonate “perché non si capiva niente”, e a un certo punto non ti veniva più il coraggio di chiedere “lo ripeti”, perciò assentivi senza sapere bene a cosa avevi risposto sì.

Jannacci da un bel po’ non c’è più e però, come titolava Il Foglio in occasione dei dieci anni dalla morte il 29 marzo scorso, “è un passato che è presente”. Perché come fai a dimenticare un pezzo della musica, e non solo, del secondo Novecento italiano, uno che trasgredì in giacca e cravatta più di chi allora e adesso s’affida al guardaroba per stupire. “Un passato che è presente” al punto che Giorgio Verdelli, regista e autore di programmi, recuperando una intervista rimasta nel cassetto e interrogando colleghi e amici di Jannacci, e il figlio Paolo, ha dedicato al cantautore milanese il suo ultimo documentario: ‘Enzo Jannacci - Vengo anch’io’, applaudito a Venezia e che in quest’ultimo fine settimana di novembre ha portato tra Bellinzona e Milano. Con un allungo al lunedì: proiezione al Cinema Palestrina, luogo cult milanese, presente Cochi Ponzoni che visse in quel fertile mondo di talenti dove Jannacci crebbe e dove, milanesissimo ma di famiglia originaria di Bisceglie, lui stesso crebbe altri ingegni. Continuando comunque a fare il medico fino alla pensione, anche se sarà meno ricordato col camice bianco che con la chitarra, come un altro “genio e regolatezza”, Aleksandr Borodin, celebrato musicista e pure chimico eccellente.

 

Quando e come conobbe Jannacci?

Fu tra il ’79 e l’’80. Edoardo Bennato mi portò a sentire un suo concerto al Metropolitan di Napoli e mi disse: lui è stato il primo grande rocker italiano. Non ci potevo credere, ma era la verità. Diventammo amici ma fu solo anni dopo, quando Jannacci venne a Roma per il primo maggio del 2005, che realizzammo una intervista a casa mia e gli piacque molto. Rimase nel cassetto per una serie di motivi contingenti e ora è entrata nel documentario.

 

Roberto Vecchioni e Paolo Conte parlano di Jannacci come del maestro, il più grande cantautore italiano. E tra quelli che lo celebrano c’è Vasco Rossi.

Ricambiato da Jannacci, che gli mandò anche una lettera bellissima che Vasco ha esposto in cornice. È difficile immaginare quanto Jannacci influenzò da subito la cultura musicale italiana già con il primo lp del 1964, che fu per l’epoca una trasgressione pazzesca: un artista di rock’n’roll che cantava in dialetto milanese. Quel disco lo comprarono Vecchioni, Paolo Rossi, Dori Ghezzi, ma non assurse mai alla hit parade.

 

Non sempre l’influenza artistica corrisponde alle copie vendute?

È proprio così, ma Jannacci è andato ben oltre: è entrato nell’immaginario collettivo nazionale. Basti pensare a un brano come ‘Vengo anch’io’: è sempre nella testa di tutti anche quando è dimenticato. Si riaffaccia al di là del tempo.

 

Quanto gli propiziò il successo il contesto milanese di quegli anni?

C’era una straordinaria effervescenza culturale che montava anche grazie a luoghi come il Derby Club, e c’era una interdipendenza tra ambienti artistici diversi che dialogavano tra loro. Un esempio che mi ha raccontato Cochi: Lucio Fontana frequentava il Derby e una sera insistette per regalargli un quadro, ma lui disse “no, vabbè, lascia stare…”. Più tardi se ne sarebbe, ovviamente, assai pentito.

 

Perché l’importanza di simili luoghi d’incontro è venuta meno?

La situazione sociale è completamente cambiata. Viviamo un momento in cui le grandi speranze e i progetti si sono ridotti e quei luoghi sono stati sminuiti dalle piattaforme sociali, di sicura utilità ma che privilegiano una esperienza mediata. Sono cresciuto a Napoli e ricordo che persino di un concerto al piccolo Teatro Instabile si poteva parlare per una settimana. Così accadeva a Roma, a Genova. Ogni città con la sua “scuola”. Il gruppo de La Smorfia, per esempio, amava moltissimo Jannacci: Massimo Troisi aveva a casa tutti i suoi dischi e quelli di De André. Cercò di rifare ‘El purtava i scarp del tennis’ in napoletano, ma non ci riuscì. C’era forse uno scambio paradossalmente più efficace prima, che attraverso i social adesso.

 

Quanto conta il talento nell’attualità? Quanto ce n’è?

In alcuni casi ce n’è, ma in generale, come posso dire… ci sono tanti musicisti che non suonano. Un tempo, se chiedevi a un ragazzo cosa gli sarebbe piaciuto fare da grande rispondeva: il chitarrista di un gruppo rock, il dj, il calciatore, qualche volta il giornalista. Poi tra i desiderata andarono di moda il broker finanziario, l’archistar. Adesso il sogno è diventare un influencer, talvolta un rapper, e mi dispiace che spesso vi si associno contenuti di violenza e di aggressività.

 

Eppure Jannacci è sempre attuale.

Più attuale degli attuali. Perché c’è poco da fare: alla fin fine ci vuole sempre orecchio.

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