oltre le biografie

Il cinema che svela l'intimità di un artista e della sua arte e ci commuove

Sandra Petrignani

I docufilm su Ryuichi Sakamoto, Enzo Jannacci e Patrizia Cavalli. Dire che sono documentari è riduttivo, servirebbe coniare una nuova definizione

Ha detto Neo Sora, regista del bellissimo Ryuichi Sakamoto| Opus (Kab) proiettato alla Mostra del cinema di Venezia: “Ho voluto mostrare l’intreccio tra esecutore e strumento” perché il padre, il grande Sakamoto appunto, sosteneva che il pianoforte fosse il prolungamento delle sue mani. E il film gioca sulla bellezza delle dita sottilissime, quasi zampe giganti di ragno sui tasti bianchi e neri, e nel loro riflesso sulla lucida parete nera dello Yamaha a coda. Forse solo un figlio poteva realizzare un’impresa del genere: interpretare in immagini le sedute al pianoforte di un musicista finale, eppure ancora bellissimo. Sakamoto era infatti malato di cancro e sarebbe morto qualche mese dopo, il 28 marzo di quest’anno, a settantun anni compiuti da poco. Aveva deciso di continuare a suonare ogni giorno finché ne avesse avuto la forza. Ciò che è riuscito a mostrare Neo Sora (il nome viene dalla madre, Norika Sora, terza moglie del compositore, cultore della privatezza) è comunque qualcosa di più dell’intreccio tra esecutore e strumento: Sora è riuscito nell’impresa impossibile di cogliere il rapporto esclusivo fra un artista e la propria arte, quel corpo a corpo fra intenzione e risultato che mette in campo la relazione segreta con i propri fantasmi. Ogni inquadratura, sulla tastiera come sugli occhiali accarezzati dai liscissimi ciuffi bianchi dei capelli, sulla piccola bocca e le sue smorfie come sulle rughe di disappunto in mezzo ai sopraccigli, è il racconto di un uomo e insieme delle Ombre che lo circondavano e che muovevano la sua ispirazione. Senza che nemmeno una parola venga a spiegarlo.

Opus è dunque un ritratto come, in modo diverso ma altrettanto fortemente commovente, sono altre tre opere, dette docufilm, viste alla Mostra: Le mie poesie non cambieranno il mondo (Fandango), di Annalena Benini e Francesco Piccolo, This is how a Child becomes a Poet (autoprodotta) di Céline Sciamma, Vengo anch’io (Sud Ovest e Indigo Film) di Giorgio Verdelli. Dire che sono documentari è riduttivo, come riduttivo è definire romanzi certe narrazioni ibride che mescolano biografia, autobiografia, racconto e saggismo e che riescono spesso a essere molto più vitali dello spompato “sistema romanzesco”. Bisognerebbe coniare una nuova definizione per gli uni e per le altre.

A Sciamma basta evocare il celebre gesto di Kim Novak che scende le scale battendo le mani in Picnic – e a ogni gradino un indimenticabile battito danzato delle mani – per “fare poesia” con le immagini e mettersi in sintonia con Patrizia Cavalli che in casa teneva in bella vista una foto della Novak perché se n’era innamorata a cinque anni proprio vedendo quel film e per l’attrice americana aveva scritto i primissimi versi. Benini e Piccolo riescono, in un’ultima struggente intervista alla poetessa di Todi, a far tacere tutto il resto intorno per ascoltare soltanto la voce di lei, guardarla muoversi, sorridere, irritarsi, ammiccare, dare vita agli oggetti della sua cucina, del suo studio, della camera da letto, essere bella com’era da giovane e prima della malattia, essere brutta con estrema eleganza e, sì, con la nuova bellezza della malattia. E colgono la verità: il rapporto con la poesia che nel suo caso era un rapporto teatrale, esibito. Perché non è uguale per tutti il dialogo interiore con la propria arte. 
Cavalli voleva piacere a Elsa Morante, spiega nel film di Benini e Piccolo, e allora s’ingegnò a riscrivere i versi composti fin lì per tirar fuori qualcosa che potesse colpire la grande scrittrice. E fece centro. E così è diventata se stessa, perché questo voleva Patrizia dalla poesia: sedurre, conquistare, come un attore sul palcoscenico. E così era con gli amici, seduttiva sempre, e raggiungeva il massimo della felicità quando leggeva i suoi versi in teatro, davanti a un pubblico in carne e ossa. E faceva un’entrata in scena che nemmeno Wanda Osiris e le brillavano gli occhi. E Annalena Benini e Francesco Piccolo hanno saputo fare proprio questo nel loro film: cogliere la luce brillante di quegli occhi innamorati di sé stessi negli occhi degli altri.
E così ha saputo fare Verdelli con l’indimenticabile, geniale Enzo Jannacci: l’ha guardato vivere la propria arte musicale, danzante, irriverente, comica e disperata allo stesso tempo, perché lo spettatore capisse che la grandezza di un artista – cantastorie, pittore, musicista, scrittore che sia – è nell’opera che produce certo, ma prima ancora è nella sua vita e nel suo carattere e in quanto di quella vita e di quel carattere riesce a trasferire su un foglio di carta o su uno spartito o su una tela. Alla fine di questi documentari non sappiamo forse molto di più della biografia di Sakamoto, Cavalli e Jannacci, eppure sappiamo l’essenziale, perché ci sembra di averli conosciuti di persona e di aver perso con la loro morte non solo i musicisti e i poeti che sono stati, ma qualcuno con cui eravamo in intimità. Per questo nel buio ci siamo messi a piangere, e siamo usciti – tutti – dalla sala con gli occhi lucidi.

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