Foto dal canale YouTube di Orchestra e Coro dell'Accademia di Santa Cecilia 

La trilogia

Fischer e l'Orchestra di Santa Cecilia, grande festa romana per Respighi

Alberto Mattioli

All'inaugurazione della stagione, il video di Yuri Ancarani sembra sfasato rispetto alla musica tanto che una consistente parte del parterre l’ha sonoramente buato

Seratona molto romana, romanissima, romana al quadrato per l’inaugurazione della stagione dell’Orchestra dell’Accademia di Santa Cecilia diretta da Iván Fischer. In programma, appunto, la “trilogia romana” di Respighi, cioè i suoi tre poemi sinfonici “local”, Pini, Fontane e Feste, inframmezzati da due corali di Liszt in versione abbé e turiferario di quel melomane di Pio IX (e Gregorovius, acido: “Mefistofele vestito da abate”) e accompagnati dai film del video artista Yuri Ancarani.

Sulla parte musicale, poco (o tantissimo) da dire. Si sa: quella di Santa Cecilia è di gran lunga la migliore orchestra italiana, che non vuol dire molto, e una delle migliori d’Europa, che invece significa moltissimo. In particolare, giovedì gli ottoni, che per le orchestre italiane di solito sono la croce e non la delizia, erano in forma mirabolante. Certo, ascoltare il Respighi uno e trino a Santa Cecilia è come mangiare i carciofi alla giudia al ghetto: specialità della casa, ottima e abbondante, valori sicuri. Ma a schivare il rischio dell’eterno ritorno del sempre uguale c’era Fischer che li ha riletti da par suo, lasciando una grande libertà anche agogica ai soli (meravigliosi) dei ceciliani e, in generale, connettendo Respighi al miglior Novecento europeo coevo: in particolare, sarà forse perché Fischer sta dirigendo ovunque il Pelléas, quanto Debussy si è sentito negli incisi sognanti e fatati dei fiati. I finali sono risultati travolgenti ma sobri, anzi travolgenti proprio perché sobri, muscolatura naturale senza l’anabolizzante della retorica: quello delle Feste romane sembrava quasi jazzistico. Del resto, siamo nel 1928 ed è l’unico poema sinfonico che non debuttò a Roma bensì a New York, auspice Toscanini (posto che Respighi mai pensò ai tre brani come a una trilogia, è anche quello che si sente sempre di meno: a torto, mi sembra). 

Detto che anche il Coro ceciliano, istruito da Andrea Secchi e collocato fuori scena ad altezze siderali, tipo Parsifal, ha risolto benissimo i due Liszt, pezzi abbastanza d’occasione, resta la questione dei video. In sintesi: per i Pini di Roma, tutta una Cinecittà in bianco e nero, con inaugurazioni da parte di gerarchi fascisti o democristiani, tanta Hollywood sul Tevere, Ben Hur e i “sandaloni”, sorridenti divi americani o de noantri; per le Fontane, un po’ di acque sgocciolanti e poi un cowboy a cavallo (più espressivo il cavallo) in giro per Villa Adriana, come in libera uscita da un Sergio Leone; per i Pini, ancora Cinecittà ma oggi, dunque a colori e popolata di turisti, mentre un altro ragazzotto si allena a fare il gladiatore e poi incontra il cowboy, ma senza bacio invocato dalla parte più queer della platea. Ogni tanto, scatta qualche associazione di idee divertente ma temo involontaria: come sul finale dei Pini, quando nell’imperversare delle buccine inconsapevolmente fasciste che accompagnano l’incedere delle legioni sulla via Appia spuntano incongruamente Sordi o la Lollo in versione bersagliera; o nel finale delle Feste, dove lo swing invece consapevolissimo di Fischer si sposa con l’hiphop fra i monumenti romani di ragazzini doverosamente multietnici.

Ma, in generale, le immagini sembrano sfasate rispetto alla musica, e ciò che si vede lontanissimo fino all’astrusità da ciò che si ascolta. I casi sono due: o non ci azzeccano nulla, o delle connessioni ci sono ma restano criptiche. In entrambi, vecchia regola dello spettacolo, quel che non si capisce equivale a quel che non funziona. Infatti sulla platea affollata di soliti noti si è via via allargata una crescente nuvoletta di perplessità, come nei fumetti. All’apparizione dell’Ancarani una consistente parte del parterre l’ha sonoramente buato, cosa che a un concerto in generale e all’Auditorium in particolare è del tutto inusuale: roba da loggione della Scala. Per inciso, le più accanite erano alcune vegliarde di lungo corso ceciliano, frementi d’indignazione e fermamente decise a esprimerla. Che dire? Severe ma giuste.