(foto Accademia Nazionale di Santa Cecilia) 

Il concerto

Schubert e Bruckner con un direttore d'orchestra di 95 anni. Meraviglie a Santa Cecilia

Roberto Raja

Herbert Blomstedt, il direttore d’orchestra svedese, la sua fenomenale quarta età e l'intensa attività sul podio delle principali orchestre europee e americane. Vedendolo e ascoltandolo si percepisce l'evidente e contagiosa gioia della musica e del far musica

Così vivo e vitale alla soglia dei 96 anni (li compirà tra meno di due mesi), anche Herbert Blomstedt potrebbe dirsi caro agli dei. Il direttore d’orchestra svedese, gran protagonista del concerto dello scorso fine settimana dell’Accademia nazionale di Santa Cecilia, ha raggiunto ormai una longevità senza precedenti nella sua professione: Bernard Haitink, morto nel 2021, ha dato il suo ultimo concerto a novant’anni, a Lucerna, e il viso e il portamento tradivano la stanchezza dell’età; più indietro nel tempo, Leopold Stokowski è arrivato a 95. Quello che rende fenomenale la quarta età di Blomstedt è la sua intensa attività sul podio delle principali orchestre europee e americane, la sua lucidità, l’energia che conserva e che soprattutto sa infondere. E la memoria intatta: l’altra sera anche la partitura della monumentale Quarta sinfonia di Anton Bruckner era appoggiata sul leggio, chiusa, e tale è rimasta per tutta la durata dell’esecuzione. Solo il corpo è smagrito e il passo un po’ incerto, complice forse la caduta dello scorso anno: sul palcoscenico arriva a braccetto di Andrea Obiso, spalla dei ceciliani, e poi dirigerà tutto il concerto seduto su uno sgabello da pianoforte. Iperattivismo, energia, memoria però non dicono tutto. O meglio, sono solo un di più per la già alta caratura dell’interprete. Blomstedt non ha niente dell’anziano malmostoso o dell’altero venerato maestro: vedendolo, ascoltandolo (perché attraverso l’orchestra pare di ascoltare anche lui, il suo canto, il suo respiro), si percepisce tuttora evidente e contagiosa la gioia della musica e del far musica, e, se non c’illudiamo, persino una bella serenità interiore. Ovvero, anche nel suo lavoro d’interprete, ben poco di rassegnatamente senile o crepuscolare, come ci si potrebbe attendere da un uomo della sua età. 

Al concerto romano si notava sin dal primo brano schubertiano in programma, con il paradosso degli anni del direttore accostati ai 18 del compositore quando scrisse questa sua Terza sinfonia. Resa qui con una freschezza e una trasparenza esemplari, dagli indugi del secondo movimento alla felice spensieratezza della tarantella finale: come se Blomstedt fosse entrato in una seconda età dell’innocenza (un effetto analogo sprigionava l’Horowitz ottantenne con Mozart).

In locandina ecco poi la Quarta di Bruckner, la sinfonia che dopo il rocambolesco insuccesso della Terza lasciò finalmente una traccia tangibile del compositore venuto dalla provincia nella Vienna musicale rosa dal confronto tra wagneriani e brahmsiani (con prevalenza della seconda fazione, il cui sacerdote, il temuto critico Eduard Hanslick, aveva ascritto Bruckner alla prima). Blomstedt cura ogni dettaglio della partitura, ma sempre come parte di un tutto. Così, nei dettagli si scoprono semi che germineranno negli anni: un ostinato dei violoncelli, un solo dei timpani, una frase degli archi in Mahler, un arabesco dei legni in Ciajkovskij. Nel tutto si ammirano il respiro lungo della frase bruckneriana, l’intensità delle sue progressioni, la forza calcolata dei crescendo, che finiscono un po’ troppo inevitabilmente – ma in questo l’interprete c’entra assai poco – in una gloriosa perorazione degli ottoni.

Risultato magnifico ottenuto con mezzi sorprendenti per la loro semplicità: il gesto di Blomstedt, che dirige senza bacchetta, col palmo delle mani aperto, è misurato: rari gli ampi movimenti del braccio, più frequente vederlo alzare di poco le spalle, gli attacchi appena accennati – ma l’orchestra che pende dal suo sguardo è sempre pronta a rispondere – gli ingressi per i singoli strumenti suggeriti con l’indice puntato per un istante. E anche qui un piccolo miracolo di arte direttoriale, perché il gesto più che un tempo d’esecuzione sembra indicare già un’espressione, un colore, come avviene subito all’inizio della sinfonia con lo stupefatto richiamo del corno, che emerge dalla bruma degli archi, sentito raramente così evocativo. Dire successo, alla fine, è dir poco. Ma i più felici della serata sembravano là sul palco gli orchestrali, ai quali il direttore ha tributato un piccolo ma insolito omaggio, consegnando all’applauso del pubblico anche ogni singola sezione degli archi.

 


 

Il prossimo concerto della stagione di Santa Cecilia è in programma al Parco della musica questo fine settimana (venerdì 26 maggio alle 20.30, sabato 27 e domenica 28 alle 18): sul podio il direttore ospite principale dell’Accademia, Jakub Hruša, che dirigerà brani di Strauss e Martinu; solista, nella “Raposdia concerto” per viola e orchestra di Martinu, Antoine Tamestit. Di Strauss due pagine di smagliante bellezza come il “Don Juan” e “Morte e trasfigurazione”. Chiude il programma il breve poema sinfonico “Memorial to Lidice” di Martinu, che ricorda la distruzione dei villaggi cecoslovacchi di Lidice e Ležáky per mano dei nazisti nel giugno 1942.

L’Accademia nazionale di Santa Cecilia dedica il concerto alla memoria delle vittime dell'alluvione che ha colpito nei giorni scorsi l'Emilia-Romagna.