L'intervista

"Sono un napoletano del nord. La mia musica? E' anche pop". Intervista a Remo Anzovino

Maurizio Baruffaldi

Colloquio con il pianista, compositore e avvocato partenopeo ma trapiantato a Pordenone, che con il suo ultimo disco ci esorta a "Non dimenticare di volare". La lunga carriera dal teatrino dei burattini alle colonne sonore cinematografiche, che gli hanno fatto vincere un Nastro D'Argento

Sfrutto la coincidenza e aggancio Remo Anzovino in Stazione Centrale. Arriva da Pordenone e abbiamo un’ora prima del treno per Torino, dove la sera suonerà al Circolo dei Lettori. Slalom di trolley e scoviamo un tavolino all’aperto, davanti alle fermate degli autobus. Sabato 20 maggio, per Piano City nel BIM Garden, tornerà a Milano per la prima esecuzione del suo album appena uscito: ‘Don’t forget to fly’, tappa iniziale di un tour che puntellerà lo stivale. Il suo è un elenco inesauribile di collaborazioni e colonne sonore: docufilm sull’arte e cinema muto, campagne pubblicitarie e servizi televisivi, autori vari del cinema e della musica italiana, ma questo “è un disco dove sono sceneggiatore, regista, e attore unico, perché è piano solo. Il primo della mia carriera”.

 

Non dimenticare di volare. È l’invito che lanci dal tuo pianoforte. “Durante la pandemia ho scritto tanto su commissione, ma il mio disco volevo fosse ambientato nel dopo. Il nostro cervello oggi ha un orizzonte più ristretto, ha memorizzato la chiusura, siamo umani con le ali reclinate. Hai rotto una gamba, e devi fare fisioterapia. E questo disco volevo fosse come un post sul frigo: dopo il Chiudere il gas, il Pagare le bollette, un Volare. Azione da tenere in mente. A quel punto mi serviva una storia, immagini da prendere nel multisala del mio cervello. La storia è: ti sei addormentato, hai 800 metri sotto, e senti il desiderio, senti che puoi volare. Ti stacchi, prendi posizione nell’aria, e in questo sogno ascolti e descrivi quello che vedi.” Non posso fare a meno di sentire in testa il ‘Felice di stare lassù.’ Remo mi gira al volo su whatsapp il ‘soggetto’, di questo film che si è scritto per mettergli le ali, al posto della macchina da presa. Le dodici tracce danzano con gli uccelli, nuotano nell’aria, si adagiano tra due nuvole.

 

Ma tra i titoli c’è anche un corda tesa. On a Tightrope. Qui c’è l’uomo che rischia, che confida nel suo equilibrio per far parte degli angeli. Qui c’è la seconda chance di Icaro. “Certo. E ci piazzo un tango al centro del disco.” Me lo intona, schioccando le dita a tempo, battendo il ritmo sul tavolino metallico, che ha una gamba più corta e balla pure lui. “Sei tu che stai sulla corda, tutto sincopato, cado non cado. Il tango dell’equilibrista ti invita a raggiungere il tuo desiderio, ad attraversare il cielo.” Vattelo a prendere, se sei capace. Questo è il post da mettere sul frigo.

Hai bisogno di un film, di vedere, per trovare la musica. “Iniziai a 18 anni, per lo spettacolo della scuola, ‘La calzolaia ammirevole’ di Garcia Lorca, compagnia Ortoteatro. E passai anni nel teatrino dei burattini. Imparavo la sintassi di una scena: tastiera sotto il palcoscenico, carta da musica, gomma e matite, cuffie per non disturbare, guardavo muoversi questi burattini: quando sentivo di avere un’idea, alzavo la mano. Grazie all’intercedere di una ragazza che lavorava al restauro delle pellicole alla Cineteca di Bologna, musicai poi il mio primo film muto: ‘Nanuk l’esquimese’. Avevo sentito eseguire sempre didascalie: l’attore corre, la musica è veloce, l’attore cade, colpo di tamburo. Qui, le immagini in bianco e nero di un paesaggio polare, a meno 50 gradi, chiamavano una musica fredda, accordi aperti, sospensioni. Però la famiglia di questo cacciatore era felice, il loro sguardo era in simbiosi con questa natura, e allora scrissi il contrario, una musica calda, li feci danzare sul ghiaccio, in questo modo emergeva la luce del loro umore.”

 

Dalla didascalia all’evidenziatore. “Ho sempre lavorato in questo modo: leggo la sceneggiatura poi guardo il film in un posto dove non ho strumenti. Mi disinteresso alla musica che farò. Devo immagazzinare emozioni. La scrivo poi riesumando quello che ha inciso, dentro. L’opera deve andare a toccare la vita segreta che abbiamo tutti. E per questo, devi sfondare l’ego. Il virtuosismo rarissimo, solo quando dice qualcosa. L’ho imparato dai miei maestri, uno su tutti Sakamoto, che ho avuto modo di omaggiare recentemente in televisione. Penso di essere, in fondo, un narratore in musica. Sono un divoratore di biografie. Un rapinatore seriale di sguardi altrui. La mia è una musica in terza persona, c’è pochissima autobiografia.”

Facciamone un po’. “Mio padre era un impiegato di banca: usciva dalla filiale e andava a lezione di solfeggio. Mi regalò lui un pianoforte, a nove anni. E quando anche lui imparò un giro di Do, ne fece una canzone con l’elenco dei miei cartoni animati nel testo. Questa cosa mi lasciò il segno: si poteva creare, inventare le cose, dal nulla. Poi a tredici anni, suonai il pianoforte di Antonio Sinagra, il grande compositore napoletano, arrangiatore di ‘Napule è’ di Pino Daniele, autore della colonna sonora di ‘Scusate il ritardo’ di Troisi: era compagno di classe di mio padre, erano molto amici, e quel Natale mi portò a casa sua. Ancora oggi, ogni cosa che compongo, gliela faccio sentire. Mi ha guidato da sempre.”

Guardo l’ora, manca poco. Ma dopo il mio gesto Remo chiama il tour manager e gli dice di spostare il treno per Torino. Tanto il concerto è serale, aggiunge. E riparte, senza domanda. “Quando suono dal vivo c’è sempre una parte di me che mi sta ascoltando. Devo perdermi nel suono. Farmi trapassare. E questo che mi ha spinto a dire in questo disco: Non dimenticarti mai di quello per cui sei stato progettato: avere un cazzo di sogno!” Ok, Remo. Giuro: ne ho almeno un paio. Van Gogh ne aveva uno abbagliante, e autodistruttivo. Nel docufilm a lui dedicato ‘Van Gogh. Sulla soglia dell’eternità’, suoni in mezzo ai quadri. “Per me non sono quadri, ma specchi, nei quali vediamo da molto vicino le nostre debolezze. A quello mi sono ispirato. E a quel cappello con le candele in testa, che usava per dipingere di notte. Ma anche alla lettera in cui scrive: ‘Mi sento felice in mezzo a un campo di grano, come una cicala a mezzogiorno’. Mi son detto: allora si può fare un pezzo in cui è felice! Anche lui! E in un brano, Arles Symphony, uso il Do maggiore, tonalità del sole. Esplosione del colore.”

 

Giochiamo a ‘strumentare’ alcuni grandi personaggi dei film sui quali hai composto una colonna sonora. Monet. “La sua ossessione per le ninfee è per il femminile. Uso misto piano sinfonico e elettronico. Con l’elettronico, a ricostruire l’acquosità dello stagno.” Frida. “Il tema fu una filastrocca. Fin da bambina Frida parlava con un’amica immaginaria, e questa filastrocca suggeriva che stesse parlando con lei. Hitler e Napoleone. Due film che raccontano l’opposta ossessione per l’arte. “Hitler è soprattutto nel brano ‘All mine’. Tutto mio. Anche omaggio personale al brano omonimo dei Portishead. Usando un tempo dispari in 5/4, facendo una marcia storta, dove non sai mai dov’è il tempo, per contrastare l’abominio. Napoleone un mini moog, che accompagna e suggerisce l’ostinazione, di un ragazzino, della borghesia corsa, che ce la fa. ‘Ambitions’, il pezzo.” Il buon Napoleone scelse Milano capitale del regno, e per incoronarsi. Cosa ti lega a questa città? “A Milano devo quasi tutto. Ho fatto l’esame di stato da penalista a 27 anni. Facevo i miei primi processi per Omicidio per bancarotta fraudolenta, e ancora cerco di farne uno all’anno. Essendo il primo laureato della mia famiglia ho provato una gratitudine immensa per quella toga: da bambino odiavo i prepotenti, e ho amato il potere che mi danno la parola, la legge, l’intelletto. Mi fa sentire come l’Uomo Tigre, il cartone della mia infanzia. Di Milano poi ricordo il primo concerto, alla Salumeria della Musica di Massimo Genchi, e l’applauso a questo ragazzino, impaurito. L’applauso di Milano, il mio primo pubblico importante, mi ha detto: devi scrivere la tua musica.”

 

L’elenco sui fondamentali incroci professionali di Remo con Milano prosegue, insieme all’apprezzamento, dice, per l’anima calvinista della città, che riconosce un valore, e sa servirsene. Il delirio affitti lo teniamo per la prossima puntata. Sulla base ritmica sbilenca dei trolley, il vociare che incrocia dialetti e lingue e l’insistenza di un venditore. Come sta un napoletano trapiantato a Pordenone? “Papà di Fuorigrotta, nasce a 300 metri dal San Paolo, mamma a Bagnoli, di fronte a dove abitavano i fratelli Bennato. Quindi sono napoletanissimo. Finiamo a Pordenone perché papà vince un concorso. I miei mi portarono sul luogo del Vajont a 10 anni. E a dieci minuti di auto sulla tomba di Pasolini. Poi, prima di scrivere le musiche del documentario di Emanuela Audisio, ‘Pasolini. Maestro corsaro’ sono stato, di notte, cagandomi sotto, nel luogo esatto dove è stato ammazzato, Idroscalo di Ostia. I fatti hanno un suono.” Diretto da Emanuela Audisio anche il documentario ‘Da Clay ad Ali, la metamorfosi’, per il quale Anzovino ha scritto la colonna sonora prodotta da Roy Paci, un nome che pronuncia con entusiasmo.

Pasolini e Alì. Due incassatori. “Due combattenti.” Dedicato al primo hai composto anche una canzone, ‘L’alba dei tram’. “Proposi a Giuliano Sangiorgi di scrivere i versi, perché era come me, nato dopo il 1975, quando Pasolini fu ucciso. Chiamai Mauro Ermanno Giovanardi, che aveva appena vinto il Tenco, ed era nella mia stessa casa discografica, a interpretarla. Fu molto generoso, e credo che nessun altro avrebbe potuto incarnarla così.” Torniamo alla tua appartenenza a due territori. “I paesaggi disadorni del Friuli sono stati la tela bianca su cui dipingere il Mediterraneo che mi scorre. Questo distacco in gioventù da Napoli ha permesso alla mia musica, anche quando tocca delle corde liriche importanti, di restare essenziale, mai strappalacrime. È bellissimo avere due mamme! E a questo non ci avevo pensato: vedi quanto è importante spostare un treno.” Intanto smanetta sullo smartphone, per farmi vedere la copertina che gli ha regalato Oliviero Toscani, del suo quarto disco, ‘Viaggiatore immobile’. Com’è in questo momento. “Per me ha avuto un grande significato: in quel momento lui aveva fatto solo quella per ‘Lou Reed Live’. Gli chiedevo l’effetto del passare da Lou Reed a Remo Anzovino, lui rideva e ripeteva: Vai diavoletto!”.

 

Ancora, invece, gli angeli: poeti enormi e feriti. Leopardi: hai suonato per il Bicentenario della sua poesia più consumata. Come si musica un Infinito? “Potevo utilizzare uno schermo cinematografico e le fotografie di Riccardo Tesi ispirate alla poesia. Presi dal testo una coppia di parole alla volta, proiettandole con un lettering pop: Interminabili spazi. Ok. Sovrumani silenzi. Via. Musicavo la sensazione. Per farla diventare tattile. Olfattiva. E alla fine le ho messe insieme.” Una cosa molto pop, lettering. Hai il Nastro D'Argento 2019 Musica dell’Arte, ma anche un nastro lungo 24 milioni di streaming su Spotify in tutto il globo. Hai fatto pubblicità e televisione. Ti definisci un artista pop? “Non mi definisco. Però dico che dalla pubblicità ho imparato la sintesi assoluta. In uno dei primi lavori, Euroflex, materassi, mi chiesero anche una versione di 10 secondi: che avesse però una testa, un corpo, una coda.” Nel tempo di un centometrista. “In un servizio a Ballarò su Berlusconi, 2006, ancora non travolto dalle Olgettine eccetera, feci la marcetta dell’inconscio, un tema che suonava sulle camminate del Cavaliere. Mi sono divertito. Se questo può dirsi pop.” Remo prova a far scendere un’ultima lacrima dalla sua tazzina di caffè, e chiude. “Restano però le parole di Morricone: se vuoi essere un vero compositore, per l’audiovisivo, devi possedere almeno il contrappunto e la fuga.” Mi stringe la mano e scappa.

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