Jordi Savall (Ansa)

A Reggio Emilia

Jordi Savall rilegge tre “Stabat Mater”. Una bellezza conosciuta ma sempre nuova

Stefano Picciano

Il testo di Jacopone da Todi viene riletto dal direttore d'orchestra spagnolo con pennellate cupe e dolenti. Una pittura in musica d'inedita drammaticità espressiva, capace di portare l'ascoltatore al centro dei misteri della Pasqua

A Reggio Emilia, nell’elegante cornice del Teatro Valli, Jordi Savall ha riletto per noi, con Le Concert des Nations e La Capella Reial de Catalunya, tre “Stabat Mater” in una serata preziosa, nella quale come è sua consuetudine ha riportato al presente, intatte nella loro bellezza, pagine tratte da un passato al quale egli ha dedicato la vita, nella consapevolezza – poiché “la musica è sempre nel presente” – di come esso sia in grado di parlare anche all’uomo di oggi.

 

Il più noto è lo “Stabat Mater” di Pergolesi, commissionato nel 1734 da una confraternita di Napoli. Fu l’ineguagliato capolavoro di un giovane compositore che, già dagli anni dei suoi studi al conservatorio napoletano dei Poveri di Gesù, si era distinto per doti eccezionali, divenendo protagonista di una parabola fulminea che si concentra nell’immagine di un genio musicale che solo ventiseienne, nel suo ultimo anno di vita, lavora assiduamente al suo “Stabat Mater” per poterlo consegnare in tempo ai committenti, nonostante le premure degli amici che, trovandolo stanco e affaticato, a più riprese lo invitano ad abbandonare il lavoro e riposare. Uno di essi, nel tentativo di convincerlo, giunse a offrirgli la cospicua somma di dieci ducati, sentendosi tuttavia ribattere con umiltà che quel lavoro, certo, “non valeva più di dieci baiocchi”. Sarebbe stata la più alta opera di Pergolesi il quale, dopo l’affrettato eppure straordinario epilogo dell’Amen, all’atto di porre sulla carta le note finali con sollievo vi aggiunse a margine le parole “Finis. Deo gratias”.

 

Il testo di Jacopone da Todi viene reso in modo nuovo attraverso pennellate cupe e dolenti, in una successione di immagini d’icastica pregnanza con cui l’autore pare partecipare in prima persona alla scena così magistralmente rappresentata, rievocata, descritta. Non più l’equilibrata polifonia della partitura – anch’essa eseguita nella serata – di Domenico Scarlatti che, pur nella insolita scrittura a dieci voci, aveva sostanzialmente rispettato le normative della musica sacra; ora ci troviamo dinnanzi a una sorta di pittura in musica d’inedita drammaticità espressiva, come nel proposito di portare l’ascoltatore nel cuore dei misteri della Pasqua. Attraverso questi capolavori, in un continuo alternarsi di struggimenti, malinconie dolenti, improvvise dolcezze, vertiginosi abbandoni, Jordi Savall ci ha condotto una volta di più nella contemplazione degli eventi del venerdì santo. Lo “Stabat Mater” di Charpentier del 1680, eseguito per primo, è una pagina pervasa di silenzio che nell’esecuzione di Savall amplifica la densità della contemplazione. E lui pare il primo a essere commosso.

 

Non ha nulla del divo, il suo atteggiamento, nel quale traspare piuttosto l’umiltà – nella postura, nelle movenze, nello sguardo – di colui che, mentre suona o dirige, sta come in punta di piedi davanti alle scene narrate e osserva, di nuovo, una bellezza conosciuta e sempre nuova. Basta che Savall si affacci sul palco perché il pubblico esploda in applausi scroscianti e carichi di gratitudine per questo maestro che con signorilità d’altri tempi, al momento degli inchini finali, pone l’attenzione su tutti eccetto che su se stesso, e con rara eleganza si rivolge agli astanti: “Signore e signori – cari amici – vi salutiamo con un bis che non sia solo un brano di musica ma anche una preghiera per la pace, per tutte le guerre che ci sono nel mondo”. Il “Da pacem, Domine” di Arvo Pärt chiude una serata da custodire nella memoria, lasciando in ciascuno la suggestiva intuizione che la musica non sia materia per addetti ai lavori, ma qualcosa che riguarda la vita di tutti.

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